Gianmaria Testa: il poeta degli ultimi

ROMA – Anche Gianmaria Testa ci dice addio, a soli 57, e non possiamo che fermarci ancora una volta, l’ennesima, a riflettere sulla maledizione di quest’anno stregato nel quale il nostro panorama culturale si sta restringendo sempre di più, fino a diventare minuscolo, misero, incapace di colmare il senso di solitudine che attanaglia ciascuno di noi in questa stagione priva di speranza.

Testa e la sua arte contadina, Testa e le sue canzoni, Testa e la passione civile che era in grado di suscitare, Testa e la sua costante ricerca di suoni, parole e atmosfere in grado di descrivere il nostro tempo, coltivando contemporaneamente la memoria di un passato che amava scandagliare, raccontare e descrivere con l’affetto e l’intensità di chi conosce l’importanza delle radici per guardare al futuro.

Testa e il dannato tumore che lo ha portato via ancora giovane, lasciandoci qui, prigionieri della nostra povertà di idee, con un punto di riferimento in meno, un’altra certezza svanita, il dolore per la nuova, tragica perdita di questi mesi colmi di sofferenza e l’incredulità per ciò che sta avvenendo, in questo vorticoso venir meno di voci, di ideali, di battaglie e di impegno civico.

Testa: il poeta degli ultimi e dei migranti che da essi traeva la sua ispirazione e ad essi dedicava la sua musica. Testa: un sognatore che non si è mai arreso e che per questo, nonostante la malattia che lo ha logorato fino a ucciderlo, ha vinto la sfida più importante, rimanendo umano e conservando fino all’ultimo il proprio coraggio e la propria dignità. Testa e un cammino infranto, una vita che non c’è più, uno strazio che aleggia nell’aria e permane dentro di noi, al solo pensiero di quanta bellezza avrebbe potuto ancora regalarci e di quante riflessioni sarebbe stato dolce e utile condividere insieme.

Lo salutiamo con le riflessioni colme di affetto dell’amico Erri De Luca: “Allora compagno, non ci abbracceremo più. Non abbiamo creduto ai generosi tempi supplementari dell’aldilà, perciò ci siamo abbracciati al termine delle nostre serate su un palco. Erano precedute da una cena e dal vino, che ci seguiva anche sulla pedana della ribalta. Ci siamo abbracciati, cento, mille volte, il mio braccio ha lo stampo della tua spalla, il tuo braccio della mia. Usciva, dal fascio di luce senza inchini, salutando con il verso di una tua canzone: e con la mano, che non veda nessuno, / con questa mano ti saluterò”.

Una carezza, una poesia, un inno alla vita, un addio malinconico e struggente come l’opera di questo cantore dello strazio e dell’abbandono che solo ora, forse, impareremo a capire e ad apprezzare.

Ciao Gian, con infiniti rimpianti.

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