Cesare Maldini: voleva dire calcio, voleva dire Milan

ROMA – Cesare Maldini era uno dei figli prediletti di quell’aspra terra friulana che negli anni ci ha regalato fuoriclasse del campo e della panchina come Dino Zoff, Ferruccio Valcareggi, Nereo Rocco ed Enzo Bearzot, ed è a questi ultimi due che quest’uomo elegante e garbato deve la sua leggenda.

È stato il primo italiano ad alzare la Coppa dei Campioni, nel ’63, a Wembley, al cospetto del Benfica di Eusebio, ma non è questo particolare a rendere straordinario l’allievo di una terra burbera e scontrosa che aveva in Nereo Rocco il suo emblema: il punto è che Cesare Maldini è stato tutto ciò che vorremmo vedere nel calcio di oggi e di sempre.

Era un galantuomo nel vero senso della parola: un difensore versatile e pragmatico, un trascinatore silenzioso, un punto di riferimento per i compagni e un uomo sufficientemente umile da calarsi nella propria parte senza accampare pretese di grandezza. Eppure grande lo era davvero, innanzitutto perché non si è mai dimenticato del dolore e della sofferenza patita dalla sua terra prima, durante e dopo la guerra, quando Trieste non era ancora tornata all’Italia e la Triestina, nella quale il giovane Cesare si fece le ossa, era definita la “bella vagabonda”: speranza di riscatto per gente che non aveva più nemmeno gli occhi per piangere. E poi perché quella storia gli è rimasta dentro per sempre, anche quando il suo spirito di sacrificio ha incontrato l’immensa classe di compagni che si chiamavano Schiaffino, Liedholm, Nordhal e, successivamente, Sani, Rivera, Altafini, sapientemente guidati da quel “paròn” col cappello sempre calcato sulla testa, un’aria da sergente di ferro e un cuore d’oro che emergeva al momento opportuno.

Nessuno gli ha regalato nulla, eppure Maldini è riuscito a scalare la vetta del successo, senza mai farsene condizionare, senza mai dire una parola più del dovuto, senza mai mancare di rispetto a nessuno, senza mai smarrire quella cordialità che lo rendeva un interlocutore squisito per amici e avversari.

Non era nessuno e divenne un protagonista; anzi, diciamo che divenne un protagonista proprio perché non smise mai di sentirsi un signor nessuno, benché alla fine indossasse la fascia da capitano e fosse diventato la colonna portante dello spogliatoio rossonero.

E quando Bearzot lo volle accanto a sé in Nazionale, Maldini dimostrò con i fatti che solo quei due friulani simbiotici potevano compiere il miracolo di eliminare Argentina e Brasile ai Mondiali di Spagna ’82; loro figli delle tragedie e della nebbia, di infiniti sacrifici, loro che nella vita hanno ballato poco e fin da ragazzi si sono dovuti rimboccare le maniche per farsi strada fra mille difficoltà. Solo quell’Italia orgogliosa, partigiana (non a caso, il suo primo tifoso era il presidente Pertini), chiusa in un silenzio stampa colmo di dignità e di poche, pochissime parole, solo quell’Italia poteva riuscire in un’impresa che non si può descrivere in un articolo perché è semplicemente qualcosa che affonda le radici nell’infanzia, nei campetti dell’oratorio, nella terra brulla, nelle scarpe sgangherate, nell’odore dell’erba, nelle giornate gelide d’inverno, nel disperato sogno di affermarsi nello sport per emanciparsi dalla miseria e dalla storia maledetta di una terra segnata dall’orrore e dalla violenza. 

Solo quei due uomini che conoscevano la fatica di esistere e di conquistarsi il proprio angolo di felicità potevano spingere gli Azzurri a battere avversari nettamente superiori, figli a loro volta di una sconfinata voglia di riscatto sociale; e solo loro potevano convincere Paolo Rossi, reduce da una squalifica di due anni legata al calcio-scommesse, di essere ancora un calciatore, fino a segnare una tripletta al Brasile e a diventare “Pablito”, eroe di quel Mondiale cominciato in sordina e terminato in gloria.

Infine, solo un eterno ragazzo nel cuore come Maldini poteva costruire con sapienza quell’Under 21 che fra il ’92 e il ’96 vinse tre Europei di seguito, forgiando la generazione che a Berlino ci avrebbe regalato il quarto titolo mondiale.

E pazienza se in Francia, nel ’98, ci andò male, se il sogno di andare avanti si infranse contro la traversa colpita da Di Biagio a Saint-Denis, se alla fine vinsero i “galletti” e noi dovemmo tornare mestamente a casa; Di Biagio oggi allena al meglio l’Under 21, a dimostrazione che Maldini ha saputo costruire qualcosa di importante ovunque sia stato.

E poi ci ha regalato suo figlio: un inno al calcio, un omaggio alla bellezza, il degno erede di un padre di cui andare orgogliosi.

A suo tempo, uscì una ballata molto divertente, “La canzone di Nereo”, la quale recita: “Nereo Rocco bestemmiava in panchina / sembrava una trincea prussiana / in camicia si sbracciava / nella nebbia feroce / navigava nel whisky scozzese / Nereo Rocco scatenava un’ovazione / quando mandava Helenio Herrera nel pallone / Radice si esaltava e Mazzola impallidiva / mentre a San Siro il Forza Milan esplodeva / Uno, due, tre / il Diavolo saettava / Rivera illuminava l’area / Maldini liberava in abito da sera / Trapattoni rischiava la galeraaaaa…”.

E in abito da sera Maldini ci ha detto addio in una domenica d’aprile, scegliendo il giorno adatto per farsi ricordare senza scadere nell’eccesso o nella retorica, lasciando che a parlare fosse comunque il campo.

Ciao Cesare, bandiera di tutti noi.

 

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