C’è una politica da ricostruire

I risultati elettorali, come molte cose della vita, possono essere visti attraverso strumenti che facilitino la loro comprensione.

Ad esempio il microscopio o il cannocchiale. Con uno strumento si ottiene un risultato di dettaglio, con l’altro si può ottenere una visione sistemica. Con uno si deve essere attaccati all’oggetto della nostra analisi – con il rischio di essere contagiati dal particolare – con l’altro bisogna prenderne le giuste distanze, con il rischio di perdere alcune sfumature. Nessuno strumento è migliore dell’altro, ma uno è utile in alcuni frangenti, l’altro in altri.

La storia del secondo ‘900, quella del tempo della democrazia, quella costruita sulle rovine della guerra nazi-fascista, poggiava le sue fondamenta su alcuni pilastri che sono definitivamente saltati con la crisi sistemica aperta nel 2008. Una crisi sistemica perché rappresenta non l’apertura di una fase di semplice aggiustamento del funzionamento della struttura economico-sociale pre-esistente, ma di un inceppamento dovuto ad una convergenza di vari fattori che si intrecciano, impedendo, almeno al momento, un processo di nuova stabilizzazione sistemica. Questo è il punto che quasi tutta la politica (e a livello mondiale) tende a non comprendere e non lo comprende perché è figlia di quel sistema che sta crollando e sa utilizzare, per le analisi, solo il microscopio.

Il compromesso sociale ed economico – costruito sulla montagna di soldi prima del piano Marshall, poi delle politiche di indebitamento degli stati – aveva piegato, anno dopo anno, la dimensione della “politica” a quella della “gestione delle risorse pubbliche”. Il modello politico in Occidente si era stabilizzato su questa forma e riuscì a piegare a questo modello anche le formazioni politiche nate nella prima parte del ‘900 e che mantenevano residui di una politica intesa come “rottura sistemica” e dei rapporti tra le classi. Vi ricordate la polemica, dentro il PCI degli anni ’80 contro l’ultimo Berlinguer, di quelli che sostenevano che bisognasse superare la famosa “diversità” e omologare il “Partito” agli altri partiti? Il succo della polemica riguardava proprio l’omologazione della idea di politica a quella della “amministrazione” del sistema esistente. Non che fosse neutro lo schieramento vincente che concretizzava, in governo, il mix di interessi presenti nella società. Destra e sinistra non sono mai simmetrici o equivalenti. Ma, da un certo punto della storia in poi, hanno rappresentato varianti “interne”, “sistemiche”, in un orizzonte sostanzialmente unico. I veri credenti della fine della storia sono stati i politici, in buona parte dell’Occidente, che hanno vissuto, sotto ogni forma e collocazione, all’interno delle varianti del compromesso socialdemocratico. Anche nelle sue forme più antagoniste.

Oggi si dice che alla politica manca una lettura dei processi. È vero. Spesso, però, si scambia questa carenza per la variante “interna” delle politiche che usano il microscopio per tentare di risolvere o alleviare i problemi. Il simbolo di questa miopia è racchiudibile nelle formule salvifiche legate al rapporto con il mitico “territorio”. Perso spesso, “ritrovato” da altri, talvolta.

È invece la dimensione lunga che manca, quella nella quale dare le risposte di fondo, quelle che possono durare “una vita”, quelle che consentono di comprendere i processi, di digerirli, di costruire nessi sociali nuovi e dare un “senso” al proprio agire, individuale e collettivo. Alla politica “sistemica” è sufficiente (anzi auspicabile) la trasformazione dell’individuo in “consumatore”. Va bene alle aziende, che con il marketing riescono a prevedere i nostri comportamenti in anticipo anche sulle nostre decisioni coscienti; va bene alla politica che ci inquadra solo nella nostra “capacità di spesa” che deve essere, più o meno, garantita. E per decenni, questa dimensione, è  sembrata in accordo anche con le aspettative delle persone. Uno scambio ineguale, certo, ma sostanzialmente accettato: a voi il potere a noi il diritto ad un po’ di consumi. La lotta politica rimaneva confinata solo sulle “distorsioni” di tale processo distributivo. Una volta viste da destra, una volta viste da sinistra. Ma mai più un orizzonte “altro”, mai più uno sguardo “oltre il confine” di quell’unica dimensione concessa.

E non inganni il risultato della capitale lombarda. La differenza elettorale tra Milano e Roma può essere misurata più nell’enorme quantità di denaro riversata sul territorio in questi anni per l’Expo e dalla funzione sistemica della vecchia forma della politica, che per altre ragioni. La corruzione intorno all’Expo non è stata minore di Mafia Capitale. Se quella montagna di denaro fosse stata convogliata su Roma avrebbe prodotto un analogo risultato di apparente stabilizzazione temporanea. Non a caso, per la capitale, si pensava all’occasione delle Olimpiadi del 2024 per una simile operazione. Un modello sistemico, drogato, fuori equilibrio che vive di dipendenza dall’emergenze e su quelle costruisce la speranza di una sua fetazione.

La crisi del 2008 ha rotto in maniera definitiva il giocattolo, ma non tutti i soggetti del vecchio gioco sembrano essersene accorti e, stupiti, tornano ai loro microscopi, cercando risposte salvifiche all’interno dei vecchi schemi o negli assestamenti interni dei gruppi dirigenti. Un po’ come i pugili con gli occhi pesti che, spinti nell’angolo, colpiscono nel vuoto sperando di trovare il colpo del KO.

Nel frattempo le risposte, pur differenziate e spesso anche centrifughe, si condensano sotto svariate forme. Ogni paese produce abbozzi di risposte anche con contraddizioni forti.

Da un lato, infatti, c’è una larga parte della popolazione che non ha compreso la dimensione sistemica della crisi. In fondo, le rassicurazioni che giungono dalla vecchia politica (facciamo un po’ di sacrifici, sistemiamo i bilanci, limitiamo la corruzione, ecc…) producono i loro effetti nell’oscurare il tornante storico che stiamo vivendo. Ma queste stesse persone sono sempre più stanche che le ricette della politica, le promesse di “aggiustare” il meccanismo, non funzionino. Anno dopo anno, non tornando alle certezze sociali pre-crisi, si sentono smarrite, tradite. Scaricano così la loro frustrazione sulla dimensione da casta che la politica “sistemica” ha raggiunto, sulla corruzione generalizzata, sui migranti che giungono sulle nostre coste. La parola d’ordine “tutti a casa” (quando non in galera) o “sono tutti uguali”, coglie l’essenza della crisi dello schema sistemico e della sua stessa impotenza. Queste persone stanno migrando verso un voto di protesta in tutto il mondo e confluiscono, paese per paese, verso i contenitori politici che sembrano poter tranquillizzare meglio, promettendo un ritorno ad un passato fatto di certezze, in modo più credibile dei partiti sistemici.

Dall’altro ci sono le persone che intravedono i primi vagiti della nuova politica. Che non solo hanno compreso la natura sistemica della crisi del 2008, ma ne percepiscono la portata dirompente e ri-organizzante delle relazioni sociali, politiche ed economiche. Sono gruppi, individui spesso slegati da rapporti con la politica sistemica. Sono “incarnatori” di pratiche di condivisione, di dono, riorganizzatori di nessi sociali, di modelli di consumo, di produzione, che rifiutano, nelle loro pratiche, i rapporti con la politica istituzionalizzata, non per scelta ideologica, ma per separatezza reciproca del fare: la politica sistemica non può inquadrarli nel suo schema e loro non riescono ad intravvedere nelle formazioni politiche esistenti la cultura sufficiente per un dialogo che non sia puramente accessorio o strumentale. Spesso occasionale o accidentale. Parlano linguaggi diversi. Uno sistemico, l’altro anti-sistemico. Uno interno alla dimensione della vecchia politica, l’altro preannuncia i primi vagiti della politica di questo secolo.

Questi due blocchi, nel nostro paese, sembrano aver trovato la convergenza sul contenitore del M5S. A buona ragione chiamato, dalla vecchia politica interna al sistema, un formazione politica, un movimento anti-sistema. E gli stessi commentatori politici, i giornalisti, gli opinionisti, che usano il metro del sistema, stentano a comprendere la valenza e la profondità del processo.

La nuova politica non può che scegliere il cannocchiale della visione lunga. Comprendere la qualità vera della crisi sistemica, che non è figlia esclusivamente della crisi della moneta, della finanza, della distribuzione ineguale delle capacità di spesa. Il mondo sta vivendo un tornante. Accanto alla crisi delle politiche neo-liberiste, con tutte le storture sociali che comporta, è il fare umano che è in discussione. I cicli ambientali sono fuori controllo e cambieranno i destini di intere popolazioni. I flussi migratori sconvolgeranno equilibri sociali e culturali. Le risorse alimentari saranno, insieme all’acqua, il problema del prossimo decennio. Accanto a questo le automazioni introdotte dal digitale ridurranno, progressivamente, la necessità di lavoro umano, producendo una trasformazione epocale della geografia del lavoro e della sua natura. Ma proprio queste emergenze e queste novità ci consegnano il territorio nuovo del conflitto tra le classi, le nuove contraddizioni, i nuovi gradi di libertà ricercati. Le forme di riaggregazione, di nuove forme relazionali, le nuove forme di economie che già alludono alla possibilità di produzione diretta di valore d’uso e non di valore di scambio (per dirla con vecchi linguaggi) ci consegnano il “territorio” nuovo del conflitto tra capitale e lavoro, dello scontro sul potere e la conoscenza che si sta giocando in questi anni. Solo che la partita avviene senza un nostro “allenatore”, senza un partito che sia in grado di costruire i nuovi nessi, le nuove forme di decisione, le nuove pratiche. Il nuovo capitalismo cognitivo, quello che mette in produzione, attraverso le tecniche digitali, l’intera vita umana, che ridescrive il valore relazionale tra individui e gruppi, che costruisce nessi sociali attraverso i processi di mercificazione totalizzanti, produce, attraverso il modello della “sharing economy”, il più alto tasso di concentrazione che la storia capitalistica abbia costruito. I “campioni” di tale economia capitalistica assumono la dimensione planetaria come il proprio territorio. Da un lato vedono la dimensione nazionale (e la politica anche quella del vecchio sistema) come un ostacolo al loro divenire tecno-economico, da un lato estraggono valore attraverso uno scambio ineguale tra “lavoro implicito” e capitale cognitivo, mettendo in produzione miliardi di individui a cui negano anche la percezione del loro stesso lavoro. Ma questo immenso Moloch che sembra onnipresente e invasivo fino alla nostra intimità, risulta poroso e dissolvibile attraverso mosse che sono assolutamente alla portata di nuove forme della politica. Si pensi al semplice caso di Uber. La piattaforma che sta aggredendo una delle principali corporazioni mondiali della vecchia forma del lavoro potrà diventare la monopolista della mobilità cittadina tra pochi anni, soprattutto nel momento in cui il settore automobilistico avrà immesso le macchine a guida robotizzata. Ma questo gigante che sta sfidando, città per città, istituzioni, lavoratori e abitudini, non potrà essere sconfitto rivolgendo lo sguardo all’indietro. La soluzione in questo settore, come in tutti gli altri, è intravedibile a patto di inforcare il cannocchiale e assumere una capacità ipermetrope di comprensione dei fenomeni e dare risposte sociali all’altezza dei processi di innovazione. Uber sarà sconfitto solo se i comuni, le comunità cittadine, organizzeranno l’innovazione e la terranno nelle loro mani. Non bisogna lasciare utilizzare le innovazioni prodotte dalle comunità di produzione condivisa pubblica e gratuita delle soluzioni informatiche alle sole multinazionali. Una piattaforma del tipo di  “Uber” che sia pubblica, aperta, condivisa e fruibile può essere facilmente prodotta da un Comune (penso ad esempio a Roma) e impedire l’avvento di una multinazionale globale assicurando da un lato un servizio innovativo al territorio, dall’altro la possibilità di utilizzare le risorse che derivino da tale nuovo servizio per riprogettare il servizio dei trasporti e forse anche qualche altro servizio. La città è la prima “piattaforma relazionale” che può essere riprogettata interamente nelle sue strutture dalla possibilità della condivisione, a patto di uscire sia dalla logica del vecchio assetto del sistema e dei suoi poteri, sia del processo di concentrazione capitalistica dell’economia della condivisione capitalistica. Come Net Left avevamo già indicato simbolicamente, nelle ultime due tornate elettorali amministrative, questo passaggio con uno slogan: “Dal Cemento ai Bit”, dal vecchio modello economico-sociale basato sul consumo (di territorio, di merci, di vita) alla intelligenza connettiva delle persone che le tecnologie semplicemente abilitano, ma che le nuove idee prospettano e indicano.  

La sinistra che si sta costruendo deve uscire dall’angolo della sola e “semplice” rivendicazione “sistemica”, quella di salario e diritti, a cui si era “ridotta” negli anni del compromesso socialdemocratico rinunciando alle ali che gli consentivano di immaginare e proporre un nuovo mondo. Deve saper intraprendere la strada delle forme di creazione diretta di nuove economie, di nuove relazioni, di nuovo “senso”. C’è bisogno di teoria nuova, di soluzioni e pratiche nuove, di organizzazioni nuove, di gruppi dirigenti nuovi. Non basta la formula vecchia politica più Twitter uguale nuova politica. La crisi sistemica comporta la crisi, lo sgretolamento degli assetti e delle forme organizzate che erano state costruite all’interno del vecchio sistema. E delle sue logiche, a partire dalle misurazioni dei pesi “quantitativi” dei pacchetti di tessere derivanti dai sistemi di “coincidenza di interessi” del reciproco riconoscimento che avviene, a livello dei territori, all’interno del funzionamento del sistema.

La sinistra di questo secolo si sta consolidando fuori dal perimetro logico del “sistema” e si sta già immergendo nei conflitti che le novità che lo sviluppo capitalistico stanno generando, lavorando sulle nuove contraddizioni che si stanno aprendo e sta abbozzando le nuove risposte. Molta della nuova sinistra, però, lo fa fuori dai contenitori controllati dai vecchi schemi e dalle vecchie logiche. Non basta più, infatti, la denuncia o l’indignazione o anche soltanto dichiararsi alternativi al PD di Renzi, continuando a giocare all’interno del terreno del confronto istituzionale. Non basta autonominarsi “rappresentanti” per avere la “rappresentanza” reale. Serve un pensiero lungo, un gruppo dirigente nuovo capace di misurarsi su nuove analisi e nuovi conflitti. Non ci sono persone giuste per tutte le stagioni, né giovanilismi o rottamazioni salvifiche. Serve una capacità di estrazione di intelligenza organizzativa che sappia dare corpo e legami alle pratiche e alle idee che già circolano e che la “politica” non vede per gli occhiali ideologici del sistema in cui è immersa. Per dirla con Adorno, una sinistra che rimane sotto il livello della tecnica non è sinistra, perché culturalmente subalterna. Si può restare subalterni (e quindi inutili) anche gridando “contro” e praticando rappresentanze marginalizzate. Ecco credo occorra ripartire da qui, evitando di declamare la necessità di sommatorie inefficaci o di purezze sterili. C’è una politica da costruire.

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