Firenze ’66, ritratto di una generazione

Firenze, cinquant’anni dopo. È trascorso esattamente mezzo secolo dall’alluvione che sconvolse una delle città più belle e più ricche di fascino e di storia del mondo; una città ferita dall’acqua e dal fango, dalla furia dell’Arno e dall’impreparazione di un governo che, pur essendo guidato da Moro e Nenni, non comprese per tempo la portata di ciò che stava avvenendo, non inviando tempestivamente soccorsi adeguati alle popolazioni colpite da una barbarie tra le peggiori che si ricordino. 

Tuttavia, come è capitato altre volte nel corso della nostra vicenda nazionale, fu proprio in quel momento drammatico che emerse il carattere degli italiani: divisi su tutto, a tratti persino rissosi, a Firenze e dintorni più che altrove, ma capaci di rivelarsi grandi nelle circostanze difficili, quando è necessario rimanere uniti, stringersi l’uno all’altro, fare fronte comune e tornare a sentirsi una collettività in cammino. 

Fu in quell’acqua e in quel fango che si temprò, ad esempio, il carattere di una generazione, di quei figli del dopoguerra che vissero così la propria Resistenza: non più contro il nemico invasore e tirannico ma contro una natura impazzita che distrusse intere abitazioni, trasformò le strade in paludi di melma e mise a repentaglio la conservazione di un patrimonio artistico e culturale di inestimabile valore.

Fu in quei giorni, fra le tende e gli scalpelli, le pale e i vestiti zuppi e sporchissimi, le chitarre e i sorrisi, fu in quei giorni che si vide il cuore e l’orgoglio di una generazione che volle essere protagonista, che volle sentirsi parte di un percorso di riscossa, che forse per l’ultima volta fu davvero felice, con quello spirito di servizio che nel corso dei decenni successivi si è notevolmente affievolito e che già pochi anni dopo avrebbe lasciato, purtroppo, spazio a dispute politiche non sempre commendevoli e, talvolta, addirittura violente.

Fu nella Firenze del sindaco Bargellini, degno successore di La Pira, che in quell’autunno del ’66 nacquero amori e amicizie destinate a durare, in alcuni casi, per il resto della vita; fu in quella Firenze ferita al cuore che gli “angeli del fango” dimostrarono a tutti la meraviglia della gratuità e del servizio; fu in quella città, dedita all’ironia verace e, talora, anche assai poco gradevole, che in quei giorni di un lontano novembre la goliardia e l’amore per il prossimo si presero per mano, prima di dirsi addio per lasciar spazio ad un eccesso di inutile seriosità che ha rovinato questo Paese quasi quanto la cattiva politica e le esagerazioni che la caratterizzano.

Perché in quella Firenze che tornò, in quei giorni, ad essere il centro del mondo, con giovani che partirono persino da altri paesi per venire a dare una mano, proprio come i loro genitori erano venuti a combattere vent’anni prima per liberarci dal nazi-fascismo, in quella Firenze venne combattuta una guerra senza spargimenti di sangue, una guerra contro l’orrore destinata a forgiare gli ideali e i valori di ragazzi e ragazze che acquisirono così un senso civico difficile da trasmettere alle generazioni successive, cresciute in un benessere probabilmente esagerato ma, soprattutto, educate secondo i disvalori moderni, con l’esaltazione dell’egoismo, dell’individualismo e della costante ricerca del successo, della fama e degli avanzamenti di carriera a scapito del prossimo.

Non che quella generazione non abbia poi deluso, non che non si sia poi perduta, lasciata andare, uniformata e fatta travolgere, a sua volta, dalla furia incontrollata del conformismo, ma se qualcosa ha resistito al passaggio di questo fiume limaccioso e assai più impetuoso di quell’Arno impazzito di cinquant’anni fa, se ancora esiste un minimo di dignità in quest’Italia che piange, in questi giorni, a causa di nuove tragedie, è perché quell’esperienza fu molto più di una semplice azione di volontariato: fu la patria morale e il banco di prova di ventenni che sapevano di dover restituire alla società le certezze e le prospettive che i genitori avevano assicurato loro rischiando la vita in montagna. 

E così, quei ragazzi che, in alcuni casi, non hanno smesso di esser tali, quei settantenni con lo stesso slancio vitale di allora, nonostante qualche ruga e tutte le difficoltà e le amarezze della vita, quei ragazzi oggi raccontano, sognano, ricordano e, forse, si commuovono ripensando ai mille destini che si incrociarono in quel lontano autunno del ’66 che ormai appartiene ai libri di storia ma che per loro rappresenta ancora la bussola, la ragione e il senso di un cammino destinato a proseguire. 

Perché anche quando il fiume rientra negli argini e il fango vien via, se hai ascoltato la voce di quell’acqua e ti sei immerso in quel fango, quelle sensazioni ti rimangono addosso per sempre, come ti rimangono impressi per sempre nella mente i volti di ragazzi come te che oggi magari faresti persino fatica a riconoscere e che, forse, per fortuna, non rivedrai mai più, godendo del privilegio di poterli conservare nella memoria in tutta la loro freschezza, armonia e spontaneità. 

Firenze, cinquant’anni dopo, mentre le immagini in bianco e nero scorrono sui teleschermi e l’Arno va per la sua strada, mentre i nonni raccontano ai nipoti le vicende di allora, mentre la vita continua ma tutti sanno che nulla sarà più come prima, in quanto quell’alluvione, nella sua tragicità, racchiude anche l’immagine di come eravamo e di come vorremmo tornare ad essere.

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