E se Donald Trump avesse ragione?

Nel mirino di un suo tweet è finita ieri la casa automobilistica General Motors “Manda il modello messicano della Chevy Cruze ai concessionari Usa senza pagare dazi doganali”. “Fabbricate negli Usa o pagate più dazi!” ha minacciato colui che tra pochi giorni sarà a tutti gli effetti il Presidente degli Stati Uniti e che con queste dichiarazioni sembra voler spaventare l’intero mondo produttivo e l’equilibrio economico mondiale.

Quello del protezionismo commerciale è stato uno dei temi portanti del programma elettorale del magnate americano, ma se non fosse poi così negativo?

Chi trae vantaggi dalla produzione delocalizzata? La risposta più ovvia è: i lavoratori delle nazioni in cui si delocalizza, ma ciò a mio giudizio è vero solo in parte.

Come teorizza anche il giovane filosofo Diego Fusaro quando parla di “globalizzazione come falsa multiculturalità” la delocalizzazione è un falso vantaggio per tutti, se non per le aziende spesso multinazionali che la attuano e che ne traggono enormi ricavi andando a produrre laddove la manodopera costa meno.

Un esempio per tutti sono i call center: in qualità di utente io che vantaggi ho dal ricevere risposte da una ragazza moldava, albanese oppure indiana? Nessuno! Nè in termini di cortesia o di preparazione nè, tantomeno, in termini economici. La chiamata è e rimane gratuita, i tempi di attesa sono gli stessi e la mia bolletta ha gli stessi costi.

Ma, per prendere un recentissimo esempio, i lavoratori di Almaviva hanno vissuto sulla loro pelle tutti gli svantaggi: costando troppo sono stati licenziati.

Delocalizzazione e protezionismo non sono antitetici ma dovrebbero essere posti in parallelo: io Azienda delocalizzo? Allora pongo tutto il mio vantaggio economico a favore della comunità di riferimento attraverso consistenti sconti o, come vorrebbe fare Trump, attraverso il pagamento di dazi.

Oppure pago i lavoratori delocalizzati con gli stessi stipendi del Paese in cui opero.

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