Prévert, Baroni e il Titanic: la tristezza dei sogni infranti

Almeno apparentemente, Jacques Prévert, Alex Baroni e la tragedia del Titanic non hanno nulla in comune, se non il fatto di costituire quest’anno altrettanti anniversari. 

I quarant’anni dalla scomparsa del poeta francese, i quindici anni dalla scomparsa del cantautore italiano e i centocinque anni dalla tragedia dell’imbarcazione inglese (celebrata a Torino da una mostra intitolata “The artifact exhibition” che sarà possibile visitare fino al prossimo 25 giugno) sono, infatti, tre avvenimenti ugualmente luttuosi ma assolutamente separati l’uno dall’altro. 

Perché dovremmo, dunque, ricordarli insieme? Non c’entrano le caratteristiche specifiche di ciascuno di essi bensì il fatto che costituiscono altrettanti sogni infranti, con tutta la tristezza che questo comporta.

Perché quando scompare un gigante che ha segnato il secolo, i cui versi sono già canzoni, il cui lirismo è vita e meraviglia al tempo stesso e la cui potenza espressiva è un grido che squarcia l’anima non se ne va soltanto un uomo ma una certa idea del mondo, dell’arte e della vita, una determinata concezione dei rapporti umani e un simbolo di fin dove possa arrivare la bellezza e l’incanto delle parole che, non a caso, Prévert cesellava con rara maestria. 

Allo stesso modo, quando scompare un uomo di trentacinque anni, a sua volta un poeta, il cui sodalizio umano e musicale con Giorgia rappresentava uno dei pochi motivi per continuare a credere nell’umanità anche in questo tempo buio e disumano, non se ne va soltanto un cantautore ma un sognatore fragile, un idealista sconfitto dal destino, un piccolo genio baciato da un talento sopraffino e, al tempo stesso, annientato dalla sfortuna che ce lo ha strappato per mezzo di un drammatico incidente con la moto dopo venticinque giorni d’agonia. 

Infine il Titanic, ossia una delle più grandi sciagure navali di tutti i tempi nonché l’emblema della conclusione della “belle époque”: una fase storica a cavallo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento caratterizzata da progressi straordinari in ambito scientifico e tecnologico nonché dal desiderio, diremmo quasi dal bisogno materiale, degli uomini di unirsi e di dar vita a soggetti collettivi, al punto che in quel quarantennio nacquero partiti, sindacati, squadre di calcio, industrie automobilistiche e un’altra serie di imprese in cui il genio individuale doveva, per forza di cose, sposarsi con le energie e l’unione di intenti della comunità nel suo insieme.

Tre speranze tradite, quindi: quella della “dolce Francia” surrealista ed esistenzialista, meta privilegiata di artisti e intellettuali, che dopo la morte di Prévert smise di fatto di esistere; quella di  dar vita, quanto meno, ad un’opposizione culturale nell’Italia del berlusconismo arrembante e della volgarità senza confini e, in ultimo, quella di un mondo che ai primi del Novecento si sentiva erroneamente al sicuro da nuovi diluvi, salvo ritrovarsi, di lì a poco, nel vortice di un trentennio barbaro nel quale due guerre mondiali posero fine a tutti gli antichi equilibri e a tutte le antiche distinzioni di ceto e di prestigio sociale, per aprire una fase nuova all’insegna dell’egemonia americana e della sostanziale subalternità europea. 

Tre spartiacque, pertanto, e la nostra anima che rimane qui, lacerata da altrettante discese verso l’abisso di un imprevedibile che travolge ogni ambizione, ogni passione, l’infinito che è dentro di noi e la semplice magia di un universale che, in fondo, altro non è che la misura dell’eccezionalità degli innamorati e dei visionari.

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