La rivolta Kachin gli interessi di Pechino

ROMA – Sembrava che la tirata d’orecchie di Pechino avesse sortito qualche effetto. Venerdì scorso, dopo l’approvazione del Parlamento birmano di una mozione per chiedere la fine dei combattimenti nello stato settentrionale di Kachin, il governo ha annunciato l’interruzione dell’offensiva contro le truppe separatiste.

Il presidente Thein Sein ha emesso l’ordine di cessate-il fuoco nell’area di La Ja Yang, in prossimità del confine cinese, dove nelle ultime settimane lo scontro si era fatto più cruento in seguito ai bombardamenti dell’aviazione birmana. L’ordine sarebbe dovuto entrare in vigore dalla mattina di sabato, ma -come riportato alla Reuters dal colonnello James Lum Dau, portavoce della Kachin Indipendence Army (KIA)- l’esercito ha continuato ad attaccare durante il fine settimana.

Lo United Nationalities Federal Council (UNFC), un’alleanza politico-militare tra 12 gruppi etnici, domenica ha risposto alle dichiarazioni piccate rilasciate il 18 gennaio dal governo birmano, definendo l’intervento “una guerra da propaganda nazista, che fa uso dei media per influenzare l’opinione pubblica e mettere KIO e KIA in cattiva luce agli occhi del popolo birmano e della comunità internazionale”.

Nonostante Thein Sein abbia negato che il Tatmadaw (l’Esercito del Myanmar) stia cercando di prendere Laiza, dove la KIA ha il suo “braccio politico”, il Kachin Indipendence Organisation (KIO), Lum Dau sostiene che il governo di Naypyidaw stia semplicemente prendendo tempo per sferrare un nuovo assalto alle postazioni dei ribelli. Il cessate-il fuoco sarebbe stato ordinato in risposta alle pressioni di Washington e, sopratutto, di Pechino, che il 15 gennaio aveva chiesto insistentemente di mettere fine al conflitto, dopo che diversi colpi di artiglieria erano finiti in territorio cinese; quattro dal 30 dicembre, riporta l’agenzia di stampa statale Xinhua.

Le violenze tra il governo “civile” e le truppe separatiste sono riprese nel giugno 2011, dopo 17 anni di tregua. L’organizzazione Kachin Kio è l’unico gruppo etnico ribelle a non aver sottoscritto un accordo di pace con il presidente Thein Sein, che dismessa la divisa, dal 29 aprile 2010 guida da civile il Partito dell’Unione per la Solidarietà e lo Sviluppo, mentre di fatto i militari e i loro alleati controllano il Parlamento. La KIO accusa Naypyidaw di basare il dialogo sul ritiro delle truppe, continuando ad ignorare le richieste di maggiori diritti politici. Così i venti mesi di scontri hanno sollevato diversi dubbi sulla sincerità delle riforme politiche ed economiche perseguite dal governo birmano.

Secondo diversi analisti, l’obiettivo primario dell’esercito nazionale consiste nell’assumere il controllo di alcune aree chiave, prescelte per la costruzione di dighe idroelettriche, osteggiate dalla popolazione locale, ma fortemente volute da diverse imprese statali cinesi. Alla genesi del conflitto, infatti, l’ostinazione della minoranza Kachin a non lasciare le proprie case per far posto agli investimenti del vicino asiatico. Nel 2005 il generale Than Shwe e il presidente uscente Hu Jintao si accordarono per la costruzione della diga di Myitsone da parte di uno dei cinque colossi energetici controllati dal governo cinese: la China Power Investment Corp. L’opera, che comporta l’evacuazione di migliaia di persone, rientra in un piano di costruzioni da 20 miliardi di dollari per la realizzazione di sette dighe “made in China”; a tutto vantaggio del vicino Yunnan, provincia meridionale di confine tra Repubblica popolare e Myanmar, vero destinatario dei 6mila watt generati dall’intero sistema. Una preziosa fonte di energia pulita alla quale Pechino, ultimamente alle prese con un inquinamento da record, ha dovuto rinunciare dopo le pressioni dei residenti. Lo stop ai lavori, imposto dal governo birmano nel settembre 2011, è stata da più parti letto come un primo passo di Thein Sein verso la democrazia.

La ripresa delle violenze nello stato Kachin ha messo in allarme il Dragone, che la scorsa settimana  ha provveduto a inviare oltre 200 soldati nelle zone di confine e ad allestire campi profughi per far fronte all’afflusso di rifugiati. Se nel 2009 la Cina si  guadagnò un discreto plauso per il modo in cui gestì la fuga di massa dei ribelli Kokang (circa 30mila quelli scappati dallo stato di Shan nello Yunnan a causa della guerriglia fratricida tra esercito birmano e gruppi armati locali), l’estate scorsa Human Right Watch ha strigliato il gigante asiatico per aver costretto alcune migliaia di profughi Kachin a tornare nella regione di provenienza, ancora teatro di guerra.

Come sottolinea il Diplomat, la solerzia dimostrata nel caso dei Kokang -minoranza etnica cinese- è spiegabile dai molti interessi detenuti da Pechino nella regione omonima, dove una nutrita comunità di mercanti provenienti dal Regno di Mezzo esporta beni industriali cinesi e attinge al mercato grigio del legname. Più che comprensibile l’imbarazzo suscitato dall’endorsement alle forze del Myanmar, a metà tra l’alleato e lo “stato cliente”, mentre i propri cittadini rischiavano la vita a pochi chilometri dal confine cinese. Senza calcolare il pericolo di incappare nelle critiche dei più nazionalisti, per i quali un mancato intervento di Pechino sarebbe equivalso a un sintomo di debolezza in politica estera. Pertanto, a coordinare l’emergenza rifugiati, nello Yunnan fu inviato niente meno che Meng Jianzhu, allora membro del Consiglio di Stato e ora segretario del Comitato per gli affari politici e legali del Partito. Non è stato manifestato lo stesso interessamento nel caso dei Kachin, per i quali il governo sinora ha fatto quel poco che basta ad ammansire la comunità internazionale: già la scorsa estate la situazione era stata lasciata alle autorità locali, e presumibilmente lo stesso accadrà con la nuova ondata di profughi. Nonostante gli appelli lanciati dai Kachin “cinesi” in favore dei “fratelli” d’oltre frontiera, gli aiuti di Pechino continuano ad essere dosati con il contagocce proprio per non invogliare gli sfollati a oltrepassare il confine.

I rapporti bilaterali tra Naypyidaw e il Dragone si sono raffreddati in seguito all’apertura del Paese dei pavoni all’Occidente, rimarcata lo scorso novembre dalla visita del presidente americano Barack Obama. Secondo voci riportate da Foreign Policy, negli ambienti accademici cinesi qualcuno starebbe addirittura pressando per l’interruzione del dialogo con il governo riformista, nell’ottica di offrire supporto alle forze separatiste; pedine che, se mosse bene “diventeranno gli amici più fidati della Cina, in prima linea contro Usa e Myanmar”.
A mettere in dubbio la buona amicizia tra i due Paesi un nuovo progetto energetico del valore di 2,5 miliardi di dollari: una pipeline di 1100 chilometri -con una capacità potenziale di 22 milioni di tonnellate di petrolio e 12 miliardi di metri cubi di gas naturale l’anno- che dal porto birmano di Kyaukpyu arriva fino a Ruili, nello Yunnan. L’opera è stata bersagliata dalle critiche dei “verdi” e delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani, che lamentano l’impatto ambientale e le inadeguate compensazioni per i residenti nella zona. Dopo tre anni di lavori, il tubo della discordia dovrebbe entrare in funzione alla fine di maggio, ma recenti dichiarazioni di China National Petroleum Corporation (CNPC) farebbero ipotizzare, quantomeno, un ritardo sospetto.

 

 


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