La riluttante Britannia di Theresa May

Sono trascorsi quasi tre mesi dal referendum che ha sancito la Brexit, ossia l’abbandono dell’Unione Europea da parte del Regno Unito, e al momento, con buona pace del catastrofismo sparso a piene mani dalla finanza internazionale e dal capitalismo speculativo globale, non si è ancora assistito alla paventata invasione di cavallette, a dimostrazione di quanto il terrorismo mediatico sortisca sempre più l’effetto opposto a quello che si era prefissato.

Ciò detto, abbiamo auspicato, a suo tempo, che la Gran Bretagna rimanesse in Europa e ribadiamo la nostra convinzione che un Vecchio Continente monco non sia affatto più forte: né per quanto riguarda la guerra al terrorismo né per quanto concerne le relazioni transatlantiche con un’America in bilico fra modernità e ritorno a una sorta di età delle caverne, incarnata per ampi tratti dal programma elettorale di Donald Trump. 

Ma che Regno Unito è quello che ha vissuto la Brexit e la conseguente disgregazione della sua classe dirigente? Che Regno Unito è quello che ha visto le dimissioni a catena dei vari artefici di questo disastro, primo fra tutti l’irresponsabile e populista David Cameron che, in una manciata di giorni, è passato da Downing Street alle panchine di Hyde Park e, purtroppo per lui, passerà alla storia come il principale responsabile di uno dei più gravi errori di valutazione della storia politica occidentale? Che Regno Unito è quello che si è affidato a Theresa May, ex ministro degli Interni del governo Cameron, esponente di una destra moderata e sostanzialmente thatcheriana, la quale sta faticosamente tentando di portare per le lunghe le trattative per il disimpegno del suo paese dal progetto comunitario, al fine di spigolare tutti i vantaggi possibili, derivanti dalla permanenza all’interno di esso? 

“Brexit means Brexit” ha asserito la May, cosciente del fatto che l’opinione pubblica britannica sia particolarmente sensibile al tema della sovranità popolare e per nulla incline ad accettare una sua eventuale violazione; fatto sta che, se la nuova inquilina del numero 10 di Downing Street sta prendendo tempo, è perché evidentemente ha fiutato che la medesima, nel suo complesso, si è già pentita di una scelta che lascia dietro di sé una scia di perplessità circa il futuro della Nazione in grado di minare i delicati equilibri sociali che di erano raggiunti negli ultimi decenni.

La May sa, ad esempio, che gli scozzesi, guidati dalla carismatica Nicola Sturgeon, non accetterebbero mai una separazione forzata dall’Europa, perdendo i privilegi garantiti dall’appartenenza all’Unione Europea senza ottenere nulla in cambio, e in quel caso chiederebbero un nuovo referendum per staccarsi dalla Gran Bretagna e questa volta i voti favorevoli sarebbero la stragrande maggioranza. 

Allo stesso tempo, la May sa che anche i complessi equilibri raggiunti con Galles e Irlanda del Nord, in particolare con quest’ultima, rischiano di essere minati da un’uscita precipitosa dall’Unione, senza prima aver contrattato almeno qualche condizione favorevole.

Senza contare le fosche prospettive riguardanti l’economia, i venti di recessione che spirano sul paese, l’abbandono forzato dei numerosi organismi comunitari che avevano sede in territorio britannico, il rischio di isolarsi in una fase storica nella quale nessuno può farcela da solo e anche la perdita di peso che il Regno Unito rischia complessivamente di subire, trovandosi in una sorta di terra di mezzo, non essendo più l’anello di congiunzione fra l’Europa e gli Stati Uniti e avendo rifiutato con sdegno di aderire a qualsivoglia processo di integrazione, così da essere oggi un vaso di coccio sballottato tra due vasi di ferro.

Perché per quanto né l’Europa né gli Stati Uniti se la passino bene, per quanto le due sponde dell’Atlantico siano in preda a convulsioni d’ogni sorta, tra l’avanzata di formazioni populiste e xenofobe e un’economia che anche dove è ripartita, dopo la crisi, non è purtroppo riuscita a tornare ai livelli pre-crisi, creando un’occupazione stabile, duratura e in grado di assicurare un futuro alle nuove generazioni, al netto di queste considerazioni, pure essenziali e ben presenti nel dibattito politico internazionale, siamo comunque al cospetto di due colossi dei quali il Regno Unito ha bisogno come l’aria, pena lo smarrimento della propria centralità e della propria stessa ragione di esistere. 

È, dunque, una Britannia riluttante questa della May: una Britannia che ha capito di aver commesso un colossale errore ma che non sa e non può tornare indietro, una Britannia fragile e irresoluta che si dimena fra la nostalgia di un passato che non può tornare e l’incertezza di un futuro che ha le sembianze di un gigantesco punto interrogativo. 

Una Britannia sconvolta dall’inadeguatezza della sua classe dirigente, da trent’anni di thatcher-blairismo, dal grigiore stanco di Gordon Brown, dalla cialtronaggine di Cameron e dalle assurde posizioni di figure risibili come l’ex sindaco di Londra, Boris Johnson, nominato ministro degli Esteri per un folle gioco di equilibri interni ai tories, il quale sta coprendo di ridicolo l’intera Nazione.

Una Britannia che avanza a tentoni, vittima delle sue contraddizioni, prigioniera dei suoi pregiudizi anti-europei e incapace di trovare la propria dimensione e di definire il proprio destino nell’ambito di una modernità dalla quale, volenti o nolenti, non si può sfuggire.

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