Palermo. Trattativa Stato-mafia, chiesti 12 rinvii a giudizio

 PALERMO – Capimafia, politici, ufficiali dei carabinieri e il figlio di “don” Vito.

Per tutti e dodici gli imputati nel procedimento sulla trattativa Stato-mafia la Procura di Palermo ha chiesto il rinvio a giudizio. Al termine della requisitoria, iniziata ieri mattina presso l’aula bunker dell’Ucciardone davanti al Gup Morosini, è arrivata l’attesa richiesta da parte del Pubblico ministero Nino Di Matteo. Potrebbero presto finire alla sbarra cinque mafiosi (i capimafia corleonesi Leoluca Bagarella, Totò Riina, e Bernardo Provenzano, il pentito Giovanni Brusca e Antonino Cinà), tre politici (l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino), tre ufficiali dei carabinieri (i generali Mario Mori e Antonio Subranni e l’ex colonnello Giuseppe De Donno) e Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex primo cittadino di Palermo, Vito Ciancimino. Tra questi, Mancino, che ha chiesto il rito abbreviato in merito al quale si dovrà pronunciare il giudice, risponde soltanto dell’accusa di falsa testimonianza. Su Ciancimino jr, trattativa a parte, pende anche l’accusa di concorso in associazione mafiosa e calunnia aggravata. La posizione di Bernardo Provenzano, invece, è stata stralciata poiché l’ex capomafia corleonese è stato giudicato dai periti incapace di presenziare alle udienze a causa delle sue condizioni psichiche. Le inchieste delle procure di Palermo e Caltanissetta vertono sui contatti tra alcuni uomini dello Stato e l’organizzazione criminale denominata Cosa nostra. Fatti accaduti nel 1992 e nel 1993. I reati contestati per i presunti accordi fra Stato e mafia sono quelli di attentato, attraverso la violenza o la minaccia, a corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato con l’aggravante dalla agevolazione di Cosa nostra. Un accordo portato a compimento, secondo l’accusa, da ex ministri, per mezzo di mafiosi e il tramite di Dell’Utri, al fine di evitare nuovi attentati. In cambio sarebbe stato offerto un ammorbidimento del 41 bis per gli uomini di Cosa Nostra in carcere. Per i Pm tutto ha inizio dall’omicidio di Salvo Lima, il ‘luogotenente’ di Giulio Andreotti in Sicilia. Per la pubblica accusa, è in quel momento che si rompe l’asse tra la mafia e la politica. Come disse Giovanni Falcone davanti al corpo senza vita di Lima, “d’ora in poi può accadere di tutto”. In effetti, da quel frangente accade decisamente di tutto. I politici ora tremano. Non si sentono più al sicuro. Tra loro, c’è Mannino che sente di essere tra i primi, se non il primo, nella lista dei politici a rischio attentato. Per questo – secondo i Pm – lo stesso Mannino incontra il capo dei reparti speciali della Benemerita Antonino Subranni e il capo della polizia Vincenzo Parisi. L’obiettivo è quello di arrivare ad aprire un contatto con i corleonesi per avviare una trattativa. La mafia, intanto non tratta. Va avanti con le bombe: arriva la strage Capaci dove muore il giudice Falcone. Secondo l’impianto accusatorio, a quel punto, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno contattano l’ex sindaco Vito Ciancimino per cercare di arrivare al capo dei capi Totò Riina per stoppare le stragi. Le stragi però vanno avanti: il 19 luglio del 1992 in via D’Amelio va a segno l’agguato teso ai danni del giudice Paolo Borsellino. Riina poi scrive il “papello”. Le condizioni del capo dei capi sono durissime: revisione del maxi processo, nuove leggi sui pentiti e altri benefici ai mafiosi. Non molto tempo dopo, Riina viene arrestato. Per i magistrati di Palermo, c’è il sospetto che a vendere il boss sia stato Provenzano, il quale da qualche tempo era in contatto con Dell’Utri. La strategia della tensione prosegue anche nel ’93: strage dei Georgofili, attentato a Maurizio Costanzo. Tutto si calma qualche mese dopo. Ma per circa 400 mafiosi sottoposti al 41 bis finisce improvvisamente il carcere duro. Coincidenza?

Pisanu: nessuna trattativa. Ingroia: trattativa aveva mandanti politici

Sulla trattativa, dagli ambienti politici arrivano alcune dichiarazioni. Per il presidente della Commissione Antimafia, Beppe Pisanu, “i vertici istituzionali e politici del tempo, dal Presidente della Repubblica Scalfaro ai Presidenti del Consiglio Amato e Ciampi, hanno sempre affermato di non aver mai neppure sentito parlare di trattativa. Penso che non possiamo mettere in dubbio la loro parola e la loro fedeltà a Costituzione e a Stato di diritto”. Immediata la replica di Antonio Ingroia, ex Pm ora candidato alla presidenza del consiglio.  “Una trattativa senza mandato politico? Credo che il presidente non abbia ben idea di quello che è accaduto in Italia. Ci sono le prove che la trattativa aveva mandanti politici e che fu portata avanti proprio per realizzare il patto politico mafioso”. ‘”Grande rispetto per il presidente Pisanu, ma la trattativa eccome se ci fu. E su essa fu immolato Paolo Borsellino”. Così il vice presidente della commissione Antimafia, Fabio Granata che continua:  “La relazione del Presidente è quindi puntuale e seria ma le conclusioni sono eccessivamente prudenti”.

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