Intervista a Lorenzo Buccella: da precario alla ribalta mondiale

ROMA – Lorenzo Buccella, nato a Lugano nel 1974, ha studiato a Bologna: è giornalista, scrittore e cineasta. Vive in Svizzera. Ha raggiunto il successo come coautore dell’acclamatissimo documentario “Sorelle d’Italia”:  su Silvio Berlusconi nell’immaginario delle donne italiane.

Chi sognavi di diventare quando eri bambino?

Non ho mai avuto un sogno che mi facesse da cavallo da traino per la mia immaginazione, ma tanti sogni che si rincorrevano a intervalli regolari e frammentati. Se proprio devo lasciare la mente a briglia sciolte, meglio non negarsi nulla. E quindi sono sempre stato fedele a quella sorta di adulterio fantastico, per cui passavo a immaginarmi in tante vesti diverse, e nelle più disparate: dal calciatore allo scienziato, passando per lo scrittore, il barman sulle navi, il falegname, lo scrittore. Una schizofrenia che, in fondo, più avanti, nella dimensione molto più banale e prosaica della vita reale, non mi ha mai abbandonato. Non a caso, anche adesso ho fatto e sto facendo diversi mestieri, proprio per quella fame di curiosità che da un lato ti permette di fare sempre nuove esperienze, ma dall’altra ti lascia sempre lì, in una zona di sospensione precaria, impedendoti di mettere una radice. In tutta onestà, non saprei nemmeno dire se si tratti di una scelta consapevole o piuttosto di una reazione a un’ineliminabile irrequietezza di fondo.        

Come è avvenuta la tua formazione?

È avvenuta in modo misto, per ibridazione, nel senso che spinto, dal mio primo amore nei confronti della poesia, mi sono iscritto a Lettere all’università di Bologna, ma ho contaminato fin da subito il mio cammino studentesco con tutta una serie di fuoriuscite in ambito teatrale e cinematografico. Non soltanto per i corsi seguiti in facoltà confinanti, ma anche e soprattutto per le esperienze dirette che ho avuto la fortuna di poter fare. Il teatro, per dire, è stato un passaggio fondamentale, perché mi ha permesso di far uscire la mia scrittura dal guscio solipsistico e un po’ ingenuo in cui ti puoi rintanare, se hai letto molta poesia da giovanissimo, ma non hai ancora una larghezza di vissuto che ti possa far da cassa di risonanza. Così, dopo qualche esperienza da attore nelle compagnie liceali, già a vent’anni, mi sono buttato e ho iniziato a scrivere e costruire i miei primi spettacoli. Prendi delle parole e le getti su uno spazio scenico, le fai agire con i corpi per cercare di allacciare un discorso o una comunicazione per un pubblico fisico che viene lì a sedersi sulle sedie in platea: penso che sia stato questo vissuto sul campo a segnarmi in maniera più profonda e a costituire il mio vero bagaglio formativo. Vuoi per incoscienza o vuoi per spirito d’avventura, la costante è sempre stata quella: cercare di tuffarmi prima ancora di conoscere bene l’acqua, con tutti gli errori che questo può anche comportare.

La famiglia ti ha indirizzato verso una professione artistica?

No, è stato un percorso fatto da me. Totalmente autonomo. Al massimo posso riconoscere un’influenza indiretta e ambientale, se proprio devo trovare rapporti di filiazione familiari. Sono nato e cresciuto in una stanza che era sempre piena di libri alle pareti, eredità di uno zio morto prematuramnete. E così, fin da piccolo, mi sono sempre mosso all’interno di uno spazio che per tanti versi era murato da scansie di biblioteca e da tutte quelle copertine di cui riuscivo a leggere solo i titoli. Mi ricordo di un volume di grammatica araba, uno di quelli fatti ancora con le pagine che si dovevano aprire con un tagliacarte. Mi sembrava la cosa più strana del mondo, un oggetto tanto misterioso quanto prezioso, da mostrare agli amici, anche se non riuscivamo mai a capire come si dicessero le parolacce in quella lingua, attività che ci riusciva più facile nei dizionari tradizionali delle altre lingue. Be, con tutti quei libri sempre negli occhi, mi piace pensare che il mio cammino sia stato un po’ come riprendere il percorso interrotto di questo zio che non ho mai conosciuto   

Per un creativo è più facile oggi trovare un inserimento lavorativo in Italia o in Svizzera?

Penso che per una persona creativa non sia mai indolore o senza problemi l’inserimento nel mondo del lavoro. Oggi più che mai, visto che tra precariato e scarsezza di fondi, lavorare in ambito culturale è spesso diventato sinonimo di volontariato o, peggio ancora, di sfruttamento. Quindi, a parte pochi casi fortunati, nella maggior parte delle situazioni si fatica a patteggiare con la realtà, ci si graffia e ci si scazzotta. Poi va da sé, i compromessi ci possono sempre stare, bisogna solo vedere a che livello si decide di accettarli, perché c’è sempre modo e modo. Per tornare alla domanda, difficile paragonare la Svizzera e l’Italia. Da una parte, c’è una situazione più florida da una punto di vista economico e il fatto di non trovarsi in dimensione affollata di concorrenza fa sì che si possano realizzare più cose ma anche che spesso ci si dimentichi del privilegio di cui si è beneficiari. Dall’altra, invece, In Italia, tutto è più difficile, ma vuoi mettere la soddisfazione di quando riesci a mettere in piedi delle cose in cui credi…

Quali esperienze professionali ti hanno dato maggiore soddisfazione in passato?

Be’, sono tante. Difficile scegliere. Se proprio devo sceglierne una, scartando di lato i miei lavori di scrittura che un po’ fanno da trait-d’union alle mie attività, dico la trasmissione radiofonica che ho fatto con Toni Jop per la Mezzanotte di Rai Radiodue. Si chiamava “D’altronde”, era di notte, da mezzanotte alle due ed era fatta solo da parole al vento, in piena libertà. Si chiacchierava con tono surreale, altalenando temi forti e risvolti più demenziali, ma soprattutto inseguendo semplicemente una parola-tema che dava l’avvio alla conversazione. Tutto senza alcuna sceneggiatura di base, con il contributo di una serie ospiti conosciuti che interveniva in studio e le telefonate del pubblico. Un po’ come dei ragazzetti che si mettono a tirar calci a una lattina per la strada e vanno avanti, rimbalzo dopo rimbalzo, fino a notte fonda senza sapere dove stanno andando.     

Come è nato il progetto di “Sorelle d’Italia”?

È nato come una sorta di scommessa: cercare di cortocircuitare l’immaginario collettivo italiano attraverso la semplice pronuncia di una password d’accesso: Berlusconi. La figura del presidente del Consiglio italiano ormai non è più soltanto quella di un leader politico, ma è qualcosa che va oltre ogni steccato discorsivo, essendo arrivato a impregnare ogni particella della società italiana. Come è stato detto in più occasioni, Berlusconi ha vinto prima culturalmente attraverso i suoi canali televisivi e poi, solo più tardi, come logica conseguenza, ha vinto anche a livello politico. E quindi, volenti o nolenti a seconda delle chiavi di lettura che si utilizzano, quello che stiamo vivendo passerà agli annali della storia come l’epoca berlusconiana. Nessun altro leader politico europeo ha avuto una capillarità così profonda nel tessuto sociale, tra vittorie elettorali, predomini economici, adorazioni populistiche,conflitti d’interesse, gaffe internazionali, problemi con la giustizia e scandali vari. Dopodiché, l’aver scelto per il nostro documentario di intervistare solo le donne è stato il prisma attraverso il quale abbiamo cercato di recuperare uno “sguardo sensibile” sull’intero paese. Con quella netta divisione, quasi antropologica, tra chi adora il premier e chi lo detesta in maniera radicale. Noi siamo partiti per questo viaggio in Italia alla fine del 2009, da Arcore fino a Villa Certosa, quando gli scandali sessuali erano solo agli inizi e, siccome le donne erano sempre state un serbatoio importante di voti per Berlusconi, noi ci siamo chiesti: qualcosa è cambiato? funzionano ancora quegli atteggiamenti seduttivi e narcisicisti che hanno reso Berlusconi una sorta di arci-italiano, un prototipo che incarna, nel bene o nel male, sogni, battute e velleità  dell’italiano comune?           

Cosa ti ha insegnato “Sorelle d’Italia”?

Mi ha insegnato che quei frammenti di realtà e di immaginario collettivo che raccogli per strada, nel contatto diretto con persone incontrate casualmente, riescono a trasformarsi in una potente fionda sociologica. Qualcosa capace di spiazzarti proprio in quei territori di pensiero in cui credevi di avere già le coordinate per orientarti. Qui, per dire, non abbiamo voluto indagare le cause del fenomeno Berlusconi, ma abbiamo voluto sondarne gli effetti. Con tutto quel che ne consegue a livello di deformazione del bombardamento mediatico a cui siamo sottoposti quotidianamente, sia pro che contro Berlusconi. Un modo, insomma, per mettere l’orecchio sul pavimento e ascoltare come vengono masticate e digerite le opinioni della gente comune. In fondo, a noi non interessava tanto  “cosa” le donne dicessero, ma “come” lo dicessero. Il nostro sguardo è stato l’ascolto.    

Quali difficoltà ci sono state?

Tante e nessuna, mi verrebbe da dire. È ovvio che per fare un lavoro di questo tipo non ci si può che appoggiare a una produzione low-budget indipendente. Detto in altre parole, significa partire per questo road-movie delle opinioni autofinanziandosi. È l’unico modo per sentirsi liberi di realizzare il documentario che si ha in mente di fare. Poi, va da sé, toccare l’argomento Berlusconi oggi in Italia vuol dire confrontarsi con una serie di tabù. Devi vincere la diffidenza delle persone con cui ti rapporti. Che è comunque una cosa più facile rispetto agli impedimenti che invece ti possono arrivare dalle forze dell’ordine. A Villa Certosa, mentre eravamo ben lontani dalla residenza di Berlusconi, siamo stati fermati dai carabinieri per un più che legittimo controllo. Solo che poi questo controllo si è trasformato, attraverso un’infilata di scuse degne di una commedia di Totò e Peppino, in una sosta obbligata, chiamiamola così, alla centrale di polizia che aveva il solo scopo di disincentivare la nostra volontà di continuare le riprese. Eravamo pienamente in regola, ma loro ci facevano star lì, almeno finché il sole non fosse calato del tutto, per rendere impossibile la prosecuzione del nostro lavoro.

Pensavi a tanto successo?

Pensa allo sproporzione tra il dato di partenza e tutto quello che è successo dopo. Abbiamo iniziato questo viaggio con due zaini e una camera a spalla e siamo finiti, a documentario terminato, a essere intervistati da testate giornalistiche fra le più disparate nel mondo. Dalla radio australiana agli articoli su “El Pais”, passando per i telegiornali svizzeri, la partecipazione al Chiambretti Night e tutti gli ampi resoconti sulla stampa italiana. Impossibile prevedere una cosa del genere, troppo ampio il divario tra il prima e il dopo. Però, inutile negare che è una discrepanza in cui è piacevole scivolare.  

A parte il lavoro,  cosa ti da maggiore soddisfazione oggi?

Sarei portato a dirti i momenti di viaggio, quando vai da una parte all’altra e sai che il tuo percorso non è una vacanza, ma solo un momento di unione tra due punti, senza nessuna aspettativa. Spesso sono viaggi per motivi di lavoro, ma non sono ancora pienamente i momenti del lavoro. E allora diventano dei veri e propri stacchi visivi. Delle bolle di sospensione, degli interstizi se vuoi, in cui però capita sempre qualcosa. Può essere un viaggio in treno in cui finalmente sai che avrai davanti tre o quattro ore per leggere un libro. Oppure una pausa in aeroporto, quando ti aggiri nelle passeggiate passa-tempo nel via-vai affannato delle valigie. O ancora, in macchina, magari con una partenza al mattino presto strappata all’alba, ma con una buona musica a riempirti le orecchie e magari tuo figlio piccolo di un anno che dorme tranquillo nel suo seggiolone sui sedili posteriori. Cose così, senza pretese, ma che sanno far vibrare anche un momento altrimenti considerato morto.

Quali sono i tuoi progetti  per il futuro?  

Rispondo molto brevemente: cercare di fare cose belle.

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