Quartieri in rivolta, in un’Italia che somiglia a una House of Cards de’ noantri

ROMA – Nei giorni scorsi tutti abbiamo sentito parlare di rivolta nei quartieri periferici di Tor Sapienza a Roma e di Corvetto e San Siro a Milano, con la ormai rituale inflazione di titoli ad effetto sui giornali e di talk show televisivi, con politici starnazzanti, che poco o nulla focalizzano delle reali ragioni del disagio, che pure sono numerose.

Purtroppo temiamo che, per una serie di motivi, questi episodi siano inevitabilmente destinati a moltiplicarsi. Innanzitutto, perché le periferie sono i luoghi sui quali si è abbattuta maggiormente la scure delle politiche liberiste, dove i giovani non studiano più, non lavorano o sono precari, e madri e padri non stanno meglio. E quando povertà e ignoranza dilagano non c’è più spazio per la solidarietà fra “uguali”, figuriamoci poi nei confronti di chi viene visto come un corpo estraneo in quanto immigrato o rom. Inevitabile lo scatenarsi della guerra tra poveri. Il degrado delle periferie si è solo accentuato negli ultimi anni ma è iniziato almeno da un ventennio, da quando cioè alla mancanza di buone politiche del lavoro si sono sommate cattive o inesistenti politiche sociali che, invece di favorire l’inclusione, si sono limitate a fare becero assistenzialismo, esclusivamente riservato ai clientes della classe politica locale al potere.

Cattive politiche pubbliche fondate su servizi erogati da un privato sociale, che spesso è a sua volta fonte di lavoro precario e sfruttamento e che finge di essere ancora un soggetto mutualistico e cooperativo ma che è divenuto ben altro da ciò che era in origine. Alla luce delle proposte contenute nel Job Act, si può ben dire che i lavoratori di questo settore hanno fatto da cavie, non a caso il ministro Poletti viene da quel mondo. Come se non bastasse, a cattive e costose politiche sociali pubbliche, si sono spesso contrapposte le iniziative di quelli che potremmo chiamare gli imprenditori del disagio, coloro i quali fingono rumorosamente di essere dalla parte dei più deboli. In realtà, traggono anch’essi una posizione di potere, se non cospicui vantaggi economici, come hanno dimostrato diverse inchieste.

Alle cattive politiche economiche e sociali si va poi a sommare, last but not least, una pessima gestione del territorio, con un’urbanistica succube della finanza. Se una volta avevamo la figura del palazzinaro speculatore e si parlava di rendita fondiaria, oggi abbiamo le banche che erogano prestiti e mutui ai costruttori garantiti dall’elevato prezzo di vendita di immobili costruiti o da costruire a forza di cambi di destinazione delle aree. Se una volta avevamo anche lo stato costruttore, oggi di case popolari non se ne fanno più e si spaccia per piano casa il possibile allargamento di abitazioni per chi la casa ce l’ha già. Il risultato sono città che crescono a macchia di leopardo, che si allargano a dismisura e che hanno conseguentemente costi di gestione amministrativi e ambientali altissimi.

Pensate a quanto costa portare i servizi idrici, elettrici, di trasporto nelle zone più remote di metropoli come Roma o Milano, specialmente se questa urbanistica “creativa” arriva dopo tre condoni edilizi. Costi che sottraggono risorse importanti alle politiche sociali. Città costruite senza rispettare la natura, senza calcolare i pericoli derivanti dall’eccessiva impermeabilizzazione dei suoli. Il risultato è catastrofico: Genova ne è l’emblema. Ma non basta, i sindaci eletti direttamente dai cittadini hanno nelle proprie mani un potere sempre più forte, che ha soppiantato le assemblee elettive. Il modello è: un uomo solo al potere. Se questo è capace e sceglie la squadra giusta la città va avanti, altrimenti sono guai.

Con i cosiddetti tagli alla politica del governo Monti, il numero dei consiglieri comunali è stato considerevolmente ridotto. Risultato: una continua campagna elettorale. Sparito il senso di squadra, all’interno dei partiti, è guerra aperta tra i suoi stessi esponenti. Talvolta, poi, i sindaci, presi da delirio d’onnipotenza, aspirano al ruolo di premier e per dare l’idea che la loro sia davvero una proposta salvifica per il paese, magari fondano nuovi partiti. Però fondare un partito nuovo costa e, quindi, servono contributi pesanti, che certo non possono dare i singoli militanti. La moneta di scambio quasi sempre sono le concessioni edilizie, i cambi di destinazione d’uso di terreni e immobili, gli appalti dai costi sovrastimati e via elencando.

Tutto a discapito delle città e dei cittadini più deboli, che non possono più contare sul sostegno di servizi pubblici locali efficienti. Purtroppo, i comuni sono il modello di quella che sarà l’Italia che verrà: con un governo forte, il bipartitismo, un Parlamento dimezzato, composto quasi esclusivamente di nominati, un Senato di eletti nelle regioni, partiti finanziati esclusivamente dai privati.

Di chi credete che faranno gli interessi? Dei cittadini o di chi li finanzia? Politici l’un contro l’altro armati, in una lotta per la sopravvivenza sulla poltrona. Insomma, una House of cards de’ noantri, con un contorno di banlieu in rivolta.

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