Giuseppe D’Avanzo. Un giornalista senza immagine televisiva

ROMA – L’elemento più peculiare che un semplice lettore curioso, estraneo a qualsiasi cerchia giornalistica, aveva di Giuseppe D’Avanzo, morto ieri improvvisamente a 58 anni, era la sua totale assenza dagli schermi televisivi. Infatti, ben pochi conoscevano la sua immagine, pochissime le foto che di lui circolavano sul web. Non credo abbia mai partecipato ad uno dei tanti talk-show, nemmeno ad “Annozero” di Michele Santoro. Lui si limitava (si fa per dire) a fare il suo mestiere con un rigore assoluto e quasi arcigno, come succedeva una volta ai grandi giornalisti. Nei tempi degli Alessandro Sallusti, Vittorio Feltri, Maurizio Belpietro, Carlo Rossella, è un titolo di grande serietà e di immenso rigore.

Non che la partecipazione ad un dibattito televisivo sia disdicevole in sé (ne è un esempio Marco Travaglio, le cui apparizioni sono provvidenziali per arginare la marea di mistificazioni ben retribuite dei “giornalisti” berlusconiani) ma è la televisione a costituire un pericolo per l’informazione, o meglio il fatto che non esistano network veramente liberi nell’Italia del magnate di Arcore. Difficilmente D’Avanzo avrebbe potuto pronunciare sullo schermo le sue puntuali denunce che spesso lasciavano a bocca aperta il lettore.

Poi, è lo stesso strumento che non si sarebbe attagliato allo stile di questo grande giornalista. Dietro ogni articolo – di solito mai breve e mai poco impegnativo nella lettura – si percepiva chiaramente l’approfondimento che conteneva, fatto di letture, comparazioni, analisi scientifiche, difficilmente riproducibili nel tempio della finzione televisiva, con l’anchorman che ti dice di stringere perché incombe lo stacco pubblicitario.

Giornalista d’inchiesta, D’Avanzo privilegiava l’indagine colta, non si limitava a sturare gli angusti imbuti dove albergava il marciume della politica e della criminalità organizzata, ma sovente riusciva a far emergere uno scenario, un racconto del potere, scovando la mimesi dietro cui i personaggi si riproducevano nelle loro fatiche di conquista economica, scopriva misteriosi legami e nomi ancora sconosciuti. Personalmente, credo che grazie proprio a D’Avanzo sono riuscito a comprendere meglio ciò che alligna nei meccanismi del potere italiano, a far andare avanti un processo di conoscenza che senza la lettura dei suoi articoli sarebbe stato molto più difficoltoso.

Per questo motivo era particolarmente inviso ai berlusconiani di truppa, cioè alla manovalanza, quella che viene pagata un tanto al chilo. Perché il suo rigore era ed è il peggior nemico di coloro che, per mestiere, fabbricano mistificazioni.

Nello stesso tempo non faceva sconti proprio a nessuno. Nell’inchiesta Telekom-Serbia, che poi fu utilizzata da prezzolati berlusconiani per spargere veleni sulla sinistra o in quella sul sequestro di Abu Omar, dove erano implicati i servizi segreti italiani di Pio Pompa, non si preoccupò affatto di accusare il governo Prodi, a dimostrazione di quanto fosse realmente indipendente il suo lavoro e scevro da qualsiasi disegno politico. Un modo di fare il giornalista oramai quasi del tutto dimenticato nell’Italia berlusconiana, dove un direttore di testata può definire il megarisarcimento dovuto da Berlusconi e Carlo De Benedetti “un’estorsione” o il direttore di “Libero” dà credito alle presunte confessioni di uno sconosciuto burlone circa un ipotetico attentato a Gianfranco Fini per attribuirne la paternità a Silvio Berlusconi e ci costruisce perfino un editoriale da prima pagina.

In un Paese dove l’informazione è ridotta in questo drammatico stato può stupire che siano esistite persone serie come Giuseppe D’Avanzo, uomini dalla coscienza senza il cartellino del prezzo e con un’idea molto semplice della propria professione: fare il proprio dovere, costi quel che costi.

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