PD. Le parole hanno un valore

ROMA – L’assemblea nazionale del Pd del 14 luglio era chiamata a mettere in campo una iniziativa politica decisiva nella fase di transizione.

Doveva parlare al paese con serietà,  rimotivare un popolo scosso dalla crisi sociale e morale, dalla disoccupazione, dalla recessione, da imprese che chiudono, dalla sfiducia e dalla protesta contro la politica in un paese sottoposto ad una pesante cura. Il Pd, dopo l’epoca di Berlusconi, doveva presentarsi per quello che è: un partito in grado di mobilitarsi e interloquire con le forze migliori della nostra democrazia per ideare e realizzare  la ricostruzione dell’Italia e per questo candidarsi al governo mettendo a disposizione il proprio segretario, indicando nella questione democratica e in quella sociale le sfide nevralgiche per l’Europa e l’Italia, proporre valori e contenuti, scegliere lo sviluppo sostenibile quale via del cambiamento. Chiedere  fiducia e dare fiducia.  
Ma dall’assemblea di sabato tutto ciò non è emerso nonostante fosse ben presente nella relazione di Bersani e nel dibattito. Al paese, invece, è arrivato un altro messaggio, opposto e negativo: un Pd diviso e un confronto che degenera in rissa con  insulti e minacce di abbandono. In aggiunta con Renzi che, come al solito non parla negli organismi dirigenti ma dichiara di volersi candidare alle primarie contro il segretario del suo partito invece di chiedere lealmente un congresso.
Le immagini televisive sono state impietose e il danno politico grande. Tuttavia quelle immagini non sono il Pd. Non sono le migliaia di iscritti,  di volontari che dedicano parte delle proprie ferie a   dialogare con i cittadini attraverso le feste, ne  sono quelle di chi lavora nei territori o che con disinteresse personale affrontano i problemi della gente impegnandosi nelle associazioni, nei comitati, nei sindacati e nel governo locale. Il Pd in questi anni è cresciuto, è diventato una forza matura e affidabile. Non è giusto che paghi gli errori di alcuni dirigenti che non hanno il senso del limite ne  rispetto reciproco, ne hanno a cuore la coesione del partito.
Come è potuto accadere uno scivolone di questa portata? E perché su questioni eticamente sensibili come le libertà, i diritti civili e la famiglia qualcuno ha pensato di decidere a colpi di maggioranza in assemblea senza un preventivo e adeguato lavoro di mediazione culturale e politica? Ora si chiede una riunione della Direzione quando la si sarebbe dovuta chiedere prima. Si rimane esterrefatti poi nel leggere che il Pd è più credibile verso il mondo cattolico mentre è l’opposto. Come è pensabile produrre una grande avanzata democratica sulla famiglia, sui diritti delle coppie di fatto e delle unioni gay, esasperando il dibattito nel partito?  
Gli errori di gestione dei temi e dell’assemblea sono stati macroscopici.

Ma si è evidenziato in una parte dell’assemblea un altro limite quello dell’assenza di una cultura della responsabilità unitaria e collettiva che conosce la nettezza della diversità delle posizioni e nello stesso tempo riconosce il valore della mediazione e del limiti invalicabili dello scontro interno oltre il quale tutti perdono.
Tuttavia qualcosa di più profondo manca alla nostra cultura politica e distorce il nostro essere partito; l’essere, come dice Bersani, un collettivo che si stima e sta insieme per il bene del paese e delle forze sociali del lavoro, dei più deboli e che s’impegna per affermare in Italia, nella democrazia e nella libertà, i valori dell’eguaglianza, della solidarietà, dei diritti, della responsabilità verso la natura e le future generazioni.
Una delle cause principali sta nell’aver costruito il partito con regole statutarie ispirate alla competitività permanente e non al confronto culturale e politico per cui non si valorizzano le sedi collettive di discussione e di decisione ma il reticolo di conciliaboli, di riunioni di corrente o di gruppi con tanto di gerarchie interne e di leaderismo incorporato che portano ad un modello plebiscitario e personalistico basato su delle primarie senza regole per la selezione e l’elezione dei gruppi dirigenti. Ciò ha creato e crea distorsioni gigantesche chiamando il popolo a votare incarichi di partito, annientando il confronto libero, aperto e mirante a creare gruppi dirigenti plurali e stimati, coesione e appetenza.

All’ultimo congresso abbiamo deciso di cambiare cominciando dalla riscrittura dello Statuto. Facciamolo al più presto perché la democrazia ha bisogno che abbiano effettivo valore parole come partecipazione, disinteresse, solidarietà, confronto politico e culturale, iniziativa politica, rappresentanza sociale e territoriale, congresso, unità, stima e comunanza, organizzazione, libertà e responsabilità degli iscritti. Ne ha bisogno tutto il PD.

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