Alitalia. Il piano fenice non è mai decollato. Cassaintegrati sulla strada della disoccupazione


ROMA – Con la messa in mobilità dei circa 4600 lavoratori superstiti,  Alitalia Linee Aeree Italiane potrà cominciare a chiudere definitivamente i battenti. 


Si tratta della fine di una realtà industriale tra le più storiche del nostro paese,  che dal 1947 è stata il simbolo di un’Italia che riusciva ad andare nel mondo sull’onda della ricostruzione, del miracolo economico e dell’approdo al novero tra i paesi più industrializzati; paese che adesso non c’è più. 
Eppure, sappiamo già che questa non sarà una notizia, ma soprattutto perché nell’immaginario collettivo questa notizia semplicemente non esiste. 
Per la stragrande maggioranza degli italiani, Alitalia vola regolarmente con gli stessi aerei, sulle stesse rotte, con lo stesso logo sul timone di coda, con il personale vestito delle stesse divise, con gli stessi numeri telefonici e lo stesso sito web di prima. 
Il fatto che sia diventata privata o che sia cambiata una consonante dell’acronimo che ne accompagna il nome sulla carta intestata, da Lai a Cai, sembrano particolari insignificanti rispetto a un’evidenza incontestabile. 
Ma non è esattamente così. 
Questo termine, “non esattamente”, suona come una sbavatura d’inchiostro nella riga di un diario o un particolare  leggermente sfuocato di una fotografia, eppure è un cono d’ombra che ha inghiottito una parte consistente e importante di quello che era l’ex Alitalia. 
Ci sono i tanti creditori rimasti a spartirsi le misere briciole di un patrimonio che non esiste più al tribunale fallimentare, c’è l’enorme quantità di soldi che la collettività ha perso in questa vicenda, ma, soprattutto, ci sono più di 4000 persone, lavoratori di tutte le categorie e di tutti i settori, che alla fine di questa agonia durata 4 anni saranno definitivamente licenziati e si disperderanno in quel mondo di mezzo che si chiama “mobilità”. 
E’ inutile ripercorrere qui la brutta storia che ha portato al fallimento, oggetto di svariati libri e di un’indagine della magistratura, la quale è al momento ferma all’iscrizione al registro degli indagati degli ultimi 3 amministratori delegati. 
Sarebbe addirittura dannoso mettersi a fare inutili piagnistei sulla perdita del lavoro  in un momento e in un paese dove assistiamo a gente costretta a buttarsi sotto i traghetti oppure a sotterrarsi viva con quintali di esplosivi per difendere miseri salari o che deve scegliere tra morire di fame o di lavoro, come nel caso dell’Ilva di Taranto, mentre si comincia a licenziare anche in quella moderna schiavitù che sono i call center, come nel caso di Almaviva a pochi passi da Fiumicino.


Vale invece la pena ripercorrere ancora per una volta l’insieme di atti, omissioni, discriminazioni subiti da coloro che nel dicembre 2008 si sono trovati risucchiati in quel cono d’ombra, in quel “non esattamente”, colpevoli solo di trovarsi nella casella sbagliata nella lotteria impazzita fatta da quei criteri oggettivi, pensati e concessi dal Governo Berlusconi alla nuova Cai e alla sua dirigenza per scegliersi “il miglior materiale umano al minor costo”, grazie all’abolizione per legge degli obblighi sociali legati all’articolo 2112 del codice civile. 
Abbiamo dovuto sopportare impotenti alla concessione del libero arbitrio aziendale per le richiamate dalla cigs e dei vecchi precari Alitalia da parte del sindacato responsabile, cancellando concetti quali anzianità, carichi familiari, l’essere più o meno genitore single o separato piuttosto che monoreddito. 
Abbiamo dovuto tollerare alla totale libertà concessa alla Cai di impiegare quanti precari voleva lasciando la gente in cassa, fino ad arrivare a preparare e impiegare altri precari nuovi di zecca grazie a corsi base venduti al costo di 2.000 euro per ogni partecipante. 
Abbiamo dovuto fare i conti con i tempi biblici di una piccola procura di provincia, alla quale sono stati obbligatoriamente indirizzati tutti i ricorsi, che non riesce a smaltire il lavoro e che rinvia le udienze di anni e non di mesi. 
Abbiamo assistito alla incredibile latitanza politica da parte di chi ne aveva la precisa responsabilità di fronte allo tsunami delle cause dei precari di AirOne. Non si doveva permettere che saldare un ingiustizia a questi lavoratori, sacrosanta e forte di quelle regole a noi del tutto negate, ne creasse un’altra ancora più grande e drammatica tutta sulle spalle di cinquantenni con famiglia, lasciando, alla fine, un saldo positivo in termine di deleghe a chi l’ha promosse e un costo del lavoro più basso per l’Azienda. 
Infine, abbiamo dovuto prendere atto che in questo settore si riesce pure  delocalizzare in casa, ovvero a volare gli equipaggi romeni della CarpatAir sulle linee nazionali, dovendo anche scoprire che era solo un nostro problema e di nessun altro. 
Vale la pena raccontare ancora una volta queste cose non certo per instillare del misero pietismo, ma perché l’oblio è una delle maledette malattie dei nostri tempi, soprattutto quando la stringente attualità riporta indietro le lancette dell’orologio. 
Tra le tante analogia tra la vecchia Alitalia e la nuova Cai c’è la capacità impressionante di macinare perdite. 
Eppure, non ci sono più i vecchi debiti di una volta, ci si è sgravati di più di 4.000 lavatori, si sono tagliati gli stipendi ai superstiti, i precari hanno contratti da fame, la produttività ha raggiunto livelli impensabili, si è appaltato gran parte delle relazioni con il personale al metodo “People Care”, la meritocrazia impera e ai più fedeli si è trovato un posto da kapò, il sindacalismo è stato responsabile, è stata garantita la grande pace sociale grazie anche all’epurazione di vetero-sindacalisti scomodi e irritanti. 
Nonostante tutto questo ben di Dio, la Cai produce più perdite all’anno di quanto facesse la vecchia Alitalia con tutti i suoi difetti. 
Come se ciò non bastasse, MeridianaFly, la compagnia nata dalla fusione tra Meridiana e Eurofly, lotta per la sopravvivenza con i suoi tempi di servizio fino a 31 ore consecutive, con gli stipendi tagliati e 1000 lavoratori, circa il 50% di tutto il personale, in cassaintegrazione con poche possibilità di essere riassorbito.


Compagnie non certo famose per i loro stipendi o tasso di sindacalizzazione, come WindJet o Blue Panorama, si trovano già a terra o in fortissime difficoltà. 
Negli aeroporti la condizione è pure peggiore, non solo non si è riusciti a risolvere la questione dei 97 lavoratori dell’Argol, ai quali è stata negata pure la clausola sociale, ma tra un appalto e una procedura di espulsione assistiamo alla costante erosione di posti di lavoro, dei diritti e del salario. 
Un vero disastro aereo, aggravato dalla sconfortante evidenza che la carneficina del 2008 e quelle che sono seguite non siano servite a un bel nulla.

Per questo, se c’è qualcosa che dovremmo imparare da quanto è accaduto e sta accadendo è che, come diceva il vecchio Bartali, “è tutto sbagliato ed è tutto da rifare”, ovvero cercando di fare esattamente l’opposto di quanto fatto negli ultimi 4 anni terribili.


Le categorie non possono sopravvivere al collasso della solidarietà, allo smembramento di qualsiasi coesione interna o al fatto di non aver eletto nemmeno un singolo delegato come accaduto in questa realtà, in un momento storico nel quale, ci piaccia o meno, il riferimento contrattuale di un navigante italiano, tra un accordo e l’altro, è scivolato inesorabilmente verso i fulgidi esempi di Cityliner e di AirItaly, compagnie che hanno i salari che hanno e dove le regole, di qualsiasi si tratti, sono variabili dipendenti dall’umore e dai bisogni dell’Amministratore Delegato di turno.

Sappiamo che era molto difficile ripartire dopo una sconfitta di proporzioni epocali come quella del 2008, probabilmente impossibile da vincere ma con tutto il peso delle responsabilità che derivano dal non averla neanche saputa perdere. 
Niente, però, può nascondere il fatto irritante che fin da subito i carnefici si sono candidati come salvatori della patria e qualcuno gli ha creduto; niente può giustificare le menzogne e l’arroganza tipica del potere comminate a piene mani che sono accettate in modo passivo da allora. 
Hanno professato per anni che erano capaci di salvare le aziende grazie a piani miracolosi o, addirittura, a fare rinascere la fenice dalle ceneri della nostra Compagnia: balle. 
Hanno detto che il manovratore non andava disturbato perché ci stava portando fuori dalla turbolenza: balle. 
Hanno instillato in ognuno l’idea che la “mors” di un collega sarebbe stata la “vita mea”: la peggiore delle balle. 



 

Oggi si riparla come prima e più di prima di crisi, di procedure di licenziamento, di ulteriore cassaintegrazione in un settore ormai preda di una patologia causata dal crollo dell’occupazione.
Si riprendono trasferimenti, i distacchi e si chiudono i contratti precari, colpendo ancora una volta chi aveva già subito discriminazioni o, peggio, gestendo la vita delle persone con quel sapiente metodo del marketing interno che ti convince a startene buono a farti umiliare perché il lavoro è tutto quel che hai. 

Questa stessa gente è chiamata al capezzale del malato e pretenderebbe di dare nuovamente la stessa medicina che l’ha ucciso.
A questa stessa gente dovrebbe essere affidato il compito di trovare strade buone, criteri giusti, salari equi per difendere il lavoro, i diritti e la dignità dei lavoratori. 
A quale nome, a quale titolo, con quale mandato, con quale forza e, soprattutto, con quale credibilità andranno a negoziare? 
La lotta dei licenziati dovrà riprendere, trovando strade nuove imposte anche dal fatto che con la cassaintegrazione se ne va anche quello status di pilota, di assistente di volo, di tecnico specializzato, di operatore informatico eccetera, che ancora legava questa gente al suo vecchio lavoro.
Non tutto è perduto e non lo sarà mai finché ci sarà fiato in gola; ma molto dipenderà anche dal fatto che tutti noi accettiamo questa  brutta ma incontestabile realtà. 
Inizia anche un nuovo percorso anche per chi lavora, costretto a riaffrontare nuove tempeste, tanto più dure tanto più si era convinti che il peggio fosse passato. 
Abbiamo l’occasione per rompere un circolo vizioso, non tanto nell’utopica visione di una comunione d’intenti che non c’è, ma nella comprensione che, dopo anni che ci hanno detto che gli interessi tra lavoratori e espulsi erano posti su piani diversi, oggi dobbiamo prendere atto che era un’altre enorme balla. 
Il settore, ma l’intero paese, ha bisogno davvero di una riforma che parta essenzialmente dal lavoro, inteso sia come occupazione che come salario, e dalle regole chiare che valgano per tutti e a tutela di tutti, partendo sempre dai più deboli. 
Una riforma che prenda atto che la vicenda della fine della Compagnia di Bandiera e quanto è accaduto ai cassaintegrati Alitalia è il paradigma di ciò che in  un paese civile non dovrebbe accadere,

Sarebbe già un gran bel passo avanti nell’interesse di tutti. 
In fondo, ripercorrere la storia amara dei cassaintegrati Alitalia ci porta a una conclusione: fare in modo che tutto questo non accada mai più per nessuno di noi.

Condividi sui social

Articoli correlati