Il rischio di una lunga e sfibrante campagna elettorale

Sono passati più di due mesi dalle elezioni e l’Italia ha finalmente un nuovo governo. Non è l’esecutivo che auspicavo. Vista l’impossibilità di dar vita a una vera maggioranza di cambiamento, a causa del deludente risultato elettorale del centrosinistra e dell’indisponibilità del Movimento 5 Stelle, avrei preferito un “governo del presidente”, di scopo, che avesse come base fondamentale il programma elaborato dai “saggi” e una durata limitata nel tempo e commisurata alla soluzione dei problemi.

Così non è. Quello che a inizio settimana ha ottenuto il via libera di Camera e Senato è un governo politico a tutti gli effetti, come ha avuto modo di sottolineare a chiare lettere lo stesso Presidente della Repubblica. E questo è certamente un problema, per almeno due ordini di motivi. Anzitutto perché è esattamente l’opposto di quanto abbiamo detto e ripetuto nel corso dell’intera campagna elettorale e nella successiva fase che ha accompagnato il tentativo di Bersani di costituire una nuova maggioranza. Poi perché, come dimostra la cronaca degli ultimi anni, Pd e Pdl sono partiti fra loro alternativi, collocati su sponde politiche e culturali opposte e dalle proposte programmatiche inconciliabili. Dar vita a un esecutivo stabile e coeso, capace di dare risposte ai problemi del paese, non sarà cosa facile.

La situazione economica e sociale che stiamo vivendo è estremamente difficile. L’attentato messo in atto domenica scorsa davanti a Palazzo Chigi proprio mentre al Quirinale era in corso la cerimonia del giuramento del governo Letta, è il segno di una tensione ormai alle stelle. E’ necessario mantenere i nervi saldi ed avere obiettivi politici concreti e chiaramente riconoscibili.

 Per senso di responsabilità e per spirito di disciplina non ho fatto mancare all’esecutivo il mio voto di fiducia. Adesso bisogna dare risposte concrete al disagio. E bisogna anche dare risposte allo smarrimento della nostra gente, dei nostri elettori, dei nostri militanti che, sostenendo la necessità di una svolta profonda rispetto alle politiche del passato, non hanno compreso, né tantomeno condiviso, la scelta di dar vita a questo esecutivo che può oggettivamente essere definito di “larghe intese”.

Enrico Letta, col quale ho avuto modo di lavorare al tempo del secondo governo Prodi affrontando e risolvendo questioni difficili quali la definizione del Protocollo sul welfare del 2007, è sicuramente uomo di qualità. Ha saputo ascoltare e ha saputo diluire l’impatto politico provocato dalla nascita di un esecutivo con il Pdl, con una scelta dei ministri che ha previsto l’esclusione dei nomi più controversi delle vecchie nomenclature. Nel governo ci sono moltissimi volti nuovi, ci sono ministri giovani, ci sono molte donne. Vedremo se funzionerà.

La preoccupazione maggiore è che il Pdl, più che far funzionare il governo, voglia sfruttare questa fase per dar vita a una lunga e sfibrante campagna elettorale. Il balletto della scorsa settimana sui nomi dei possibili ministri (Brunetta, Gelmini, Sacconi) e lo show continuamente ripetuto sull’abolizione dell’Imu (che costerebbe subito otto miliardi e precluderebbe ogni altra possibilità di  intervento in campo economico e sociale) la dicono lunga. Vedremo se Letta sarà in grado di operare una sintesi adeguata e se le scelte dell’esecutivo saranno all’altezza delle necessità del paese.

Il quadro programmatico di riferimento deve essere quello delineato nel documento dei “saggi”. E, per quel mi riguarda, deve essere articolato su sette punti fondamentali: riforma della legge elettorale; riduzione del numero dei parlamentari; superamento del bicameralismo perfetto con l’istituzione di un Senato delle Regioni; pagamento alle imprese dei debiti commerciali contratti dalla pubblica amministrazione; rifinanziamento della cassa integrazione in deroga; revisione della riforma Fornero delle pensioni con definitiva soluzione del problema dei cosiddetti esodati; varo di un piano straordinario per l’occupazione dei giovani, degli over 50 e dei lavoratori in mobilità, attraverso un sistema di incentivi alle imprese, ivi compresa la riduzione del cosiddetto cuneo fiscale.

In particolare, per quanto riguarda le pensioni, ritengo si debba intervenire in direzione di una maggiore flessibilità del sistema. Ciò significa, ad esempio, introdurre, per chi si avvarrà del sistema misto retributivo – contributivo, la possibilità di scegliere, in presenza di requisiti minimi (una proposta può essere 35 anni di contributi versati e una rendita attesa pari almeno a una volta e mezzo l’ammontare della pensione minima), il momento del pensionamento entro un range compreso tra i 62 e i 70 anni, con un sistema di disincentivi e di incentivi. Per chi si avvarrà del sistema contributivo, come prevede l’attuale legge, pensione a 63 anni però con un risultato pensionistico anch’esso pari a una volta e mezzo il trattamento minimo. Per i lavoratori precoci si dovrebbe consentire il ritiro dal lavoro – uniformando il trattamento tra uomini e donne – con 41 anni di contributi, senza alcuna penalizzazione né aggancio alla aspettativa di vita. Parallelamente, per i cosiddetti esodati, andrebbe rifinanziato il fondo istituito lo scorso anno con la legge di Stabilità.

Su tutti questi punti abbiamo presentato specifiche proposte di legge. Sarà il metro programmatico sul quale valutare l’azione del governo. 

 

 

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