Tutti i rischi del renzismo di complemento

ROMA – Ormai il renzismo dilaga ovunque, persino nei luoghi e tra i soggetti più insospettabili. Nella politica italiana, dopo l’affermazione del PD alle Europee, sono diventati tutti renziani: dai socialdemocratici di SEL, figli della tradizione del PCI e, in gran parte, di Rifondazione Comunista, ai liberali, e in molti casi liberisti, di Scelta Civica. Tutti renziani, senza distinzioni di sorta, e ovviamente tutti della prima ora, compresi coloro che nell’autunno del 2012 utilizzavano nei confronti dell’allora sindaco di Firenze espressioni ed epiteti irripetibili.

Poi si sa, le elezioni sono andate come sono andate, Bersani è stato affondato insieme a Prodi nella drammatica notte dei centouno e davanti al sindaco di Firenze si sono spalancate praterie che lo scaltro artefice della “rottamazione” non ha esitato a percorrere da par suo, ossia imprimendo continue accelerazioni e dolorosissimi strappi: prima candidandosi alla segreteria del partito, dopo aver più volte negato di nutrire quest’intenzione, poi defenestrando Letta e insediandosi a Palazzo Chigi e, infine, una volta raggiunto l’obiettivo, dichiarando guerra all’universo-mondo, a cominciare dai sindacati e dai corpi intermedi in generale.

Perché il renzismo, come si evince da qualunque indagine demoscopica, non è una dottrina politica né si pone alcun obiettivo di condivisione e comunità; il renzismo è una mistica, un atto di fede, un aggrapparsi all’unico leader che, a detta di molti, può riuscire nell’impresa di condurre il Paese fuori dal pantano della crisi. Pertanto gli viene perdonato tutto, compreso ciò che mai l’opinione pubblica, e in particolare certi giornali, avrebbero consentito a chiunque altro.

Non sorprende, dunque, che partiti e istituzioni soffrano di un tasso di sfiducia e disaffezione senza eguali nella storia repubblicana mentre il Premier gode un consenso quasi imbarazzante, assai superiore rispetto al pur eccellente risultato conseguito dal suo partito alle elezioni. Non sorprende perché Renzi non è il segretario del PD e il presidente del Consiglio: o meglio, lo è ma si comporta come se non lo fosse. Renzi è Renzi, cantore e interprete di una nuova formula politica che possiamo definire “antipolitica di governo”: berlusconiano nella capacità straordinaria di tenere la scena e dominare il contesto dalla mattina alla sera, grillino nell’interpretare il malcontento, la rabbia e l’esasperazione dei cittadini nei confronti delle classi dirigenti, popolare nell’afflato europeista che sembra animarlo al di là dei confini nazionali (virtù molto apprezzata a Bruxelles che, non a caso, mancava del tutto al sire di Arcore). 

Al ritorno in Patria, però, torna tranquillamente se stesso, riuscendo nell’impresa di lanciarsi in filippiche contro il mondo della politica come se lui facesse lo stilista o il calciatore, offrendo un senso di estraneità a tratti imbarazzante ma formidabile dal punto di vista comunicativo, poiché il messaggio che trasmette è quello di un uomo anti-sistema quando lui è il pilastro del sistema, il punto di riferimento di uno scenario in continua evoluzione, l’uomo al centro di un contesto dissolto, liquefattosi nel corso degli anni al punto di produrre una serie di anomalie che oggi stanno mettendo a rischio il concetto stesso di democrazia nonché i princìpi basilari della Costituzione.

Un magnifico istrione, un anti-politico nelle stanze del potere, un uomo il cui programma e le cui proposte non sono chiare a nessuno, nemmeno ai suoi più accesi sostenitori, che deve le sue recenti fortune proprio a questa vaghezza, a questo piacere a tutti, a questo essere, pirandellianamente, “uno, nessuno e centomila”.

C’è, quindi, poco da stupirsi del fatto che la sinistra, sia quella interna al PD sia quella che ancora cerca una propria dimensione e un proprio spazio politico nei partiti della sinistra radicale, sia in difficoltà, per non dire in crisi totale.

Tralasciando il disastro di SEL e concentrandosi sulle innumerevoli minoranze del PD, non sorprende che siano nel pallone perché non sanno da che parte andare né come comportarsi: devono fare i conti con un avversario, perché di fatto tale è e tale lo considerano, ma al tempo stesso elogiarlo e dirsi pronte ad aiutarlo ad attuare il suo programma di riforme (che non sanno minimamente cosa preveda, se non per sommi capi, ma fingono a meraviglia di conoscerlo e, peggio ancora, di condividerlo); al tempo stesso, devono provare a riorganizzarsi e a dare un senso alla propria permanenza nel partito ma non fanno altro che dividersi, anche perché di questo PD non condividono assolutamente nulla e la lotta interna per le poltrone di una segreteria di facciata non è certo un terreno in grado di aggregare forze fresche o, come sarebbe necessario, di coinvolgere le esperienze migliori della società civile. Inoltre, devono sostenere e dirsi soddisfatti di un governo di cui non approvano quasi nulla e farsi promotori di un pacchetto di riforme dell’assetto istituzionale e costituzionale cui per anni hanno riservato epiteti da far impallidire quelli nei confronti di Renzi. Infine, devono far finta di credere alla balla colossale che la legislatura arriverà alla scadenza naturale e alla balla, non meno enorme, che nel semestre italiano di presidenza dell’Unione Europea la mirabolante azione del governo Renzi riuscirà davvero a invertire la rotta dissennata di trent’anni di liberismo. Il tutto, ovviamente, nella segreta e inconfessabile speranza che il segretario-premier scivoli su una buccia di banana o che esaurisca, nel giro di pochi mesi, la spinta propulsiva per poterlo abbattere e tornare al centro della scena.

Il problema di Renzi è che ha capito di avere a che fare con degli attori consumati ma non ha ancora valutato a dovere i rischi prodotti dai renziani di complemento, primo fra tutti quello di essere mandato allo sbaraglio, con tanto di applausi e fanfare, in una sfida riformista che da solo, o peggio ancora in accordo con Berlusconi, non può vincere.

 

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