Ferguson. Il razzismo non è morto, vige il Far West dei pistoleri

ROMA – Chissà perché, ma quando pensiamo agli Stati Uniti tornano sempre alla mente le praterie sconfinate,  i loro abitanti con i cappelli da cowboy e il sorriso stampato sulla faccia, quasi fossero bambini divertiti da tutto ciò che li circonda. Invece, la realtà è ben diversa. Dalla vicenda di Ferguson, cittadina di appena 21 mila abitanti nella contea di St. Louis, riaffiorano drammatici ricordi di segregazione e di razzismo, di povertà e abbandono, di cui spesso le cronache non parlano con tanta disinvoltura.

A poche ore di auto c’è il Tennessee  con le sue storie di violenza contro gli afro americani, luogo in cui nacque nel 1865 un’organizzazione che la dice lunga sui suoi criminali obiettivi: il Ku Klux Klan, la cui  discriminazione, nonostante le leggi, è nota a tutti ed è tuttora rimasta una porta socchiusa con la quale la società americana deve spesso tornare a fare i conti.

Insomma da Ferguson rimbomba ancora l’eco di quell’ingiustizia subdola e perversa che segna negativamente il volto di un’America che si dice aperta, tollerante e portatrice di democrazia anche fuori dai suoi confini naturali.

Michael Brown, un ragazzo nero di appena 18 anni, tra l’altro disarmato, viene freddato da 6 colpi di pistola da un poliziotto bianco. Pochi giorni dopo, A St. Louis un altro ragazzo di 23 anni, sempre di colore, viene ucciso dopo aver rapinato un negozio, con una rapidità da film del Far West, come dimostrano le immagini diffuse in rete, dove si odono almeno una decina di spari esplosi dalle forze dell’ordine. Parliamo di città dove la disparità economica, sociale e anche culturale è qualcosa di palpabile da sempre. Non è un caso che il 95% dei poliziotti a Ferguson sia bianca, mentre la comunità sia composta dal 63% di neri. Anche la vittoria alle presidenziali, per la prima volta nella storia americana, di un afro americano non è servito a pareggiare i conti con i nefandi secoli della schiavitù, nonostante la sua abolizione e con i pregiudizi onnipresenti sui quali la razza bianca fa ancora leva per imporre la sua supremazia. Di certo Obama ha fatto benissimo ad aprire un’inchiesta approfondita sugli episodi incresciosi, almeno per fare luce e dar corso alla giustizia, ma quanto accaduto e balzato sulle cronache mondiali ha radici culturali molto più profonde che sono addirittura peggiorate con la crisi economica e dei valori che travolgono anche e soprattutto una delle maggiori potenze mondiali.

Da una parte una situazione socio economica intollerabile, di cittadini ghettizzati, che a loro volta, usano la violenza come unica arma di difesa e di cui vergognosamente l’America tende a sminuire. Dall’altra uno Stato a volte prevenuto e impreparato a far fronte alle problematiche dei suoi cittadini, incapace di guardare oltre alle mere apparenze, che finisce per usare il sistema repressivo e violento quale priorità assoluta. L’intervento della Guardia Nazionale è la prova emblematica dell’incapacità di mediare una vicenda così complessa e delicatissima che richiama le responsabilità della storia di un continente, visto che diventa epicentro di una moltitudine di problematiche antiche e nuove che si uniscono mettendo in moto quella che si potrebbe chiamare una strategia della tensione.

Ferguson diventa così il simbolo dei problemi irrisolti, dei pregiudizi razziali, dove  – come confermano le cronache – essere nero porta con sé una serie di svantaggi e preclusioni. Non solo si tratta di avere una visione sull’indice di disparità che molti media hanno tirato in ballo in questi giorni, come la percentuale sui presunti fermi, sui controlli, sulle perquisizioni, spesso ingiustificate, di cui gli afro americani sono oggetto in maniera rilevante e massiccia rispetto ai bianchi. Insomma il pregiudizio c’è, è impossibile non vederlo.  

Perfino studi e osservazioni sugli stereotipi razzisti presenti sui media americani  identificano i neri  come soggetti criminali, drogati e nullafacenti. Vi sono vari scritti che sondano questi aspetti, come quello di Robert Entman e  Andrew Rojecki, autori de ‘The Black Image in the White Mind: Media and Race in America’ nei quali vengono affrontati gli stereotipi relativi agli uomini di colore negli Stati Uniti,  specie negli anni ’80 e ’90 e in cui emerge la loro descrizione come criminali  violenti, spacciatori di cocaina e crack, tossicodipendenti, senzatetto e persone del sottoproletariato. Oppure le raffigurazioni storiche degli afro americani ben descritte nel libro Blackface di David Levinthal e Manthia Diawara  dal quale emerge chiaramente che i neri vengono paragonati ad animali e rappresentano spesso la devianza sociale e la malvagità.  

Insomma, anche questa è  l’America che non riesce a fare i conti con il suo passato. Viene in mente una frase di Ryszard Kapuscinski dal libro L’Altro: “Ogni volta che l’uomo si è incontrato con l’altro, ha sempre avuto davanti a sè tre possibilità di scelta: fargli la guerra, isolarsi dietro a un muro o stabilire un dialogo”. Gli Stati Uniti spesso scelgono la via del Far West.

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