Riforma costituzionale. Il Governo non dovrebbe fare il costruttore di muri, ma di ponti

ROMA – La nuova lettura al Senato della riforma costituzionale rappresenta un passaggio politico decisivo.

Può ampliare un consenso su un testo che poi – per l’accordo tra i gruppi parlamentari – la Camera fa proprio, decidendo così un percorso lineare e sicuro per la sua conclusione; oppure approfondire divergenze, lacerazioni, che renderebbero non chiaro e certamente non positivo l’esito nel Parlamento e nel Paese. Dipende da tutti noi.

Il mio impegno e quello dei colleghi che hanno sottoscritto il documento “Avanti con le Riforme” è di contribuire a realizzare in tempi certi una buona riforma della Costituzione, che archivi il bicameralismo paritario. Per riuscirci, in questa fase, è ancora più doverosa la chiarezza.
Il senatore Quagliariello, ho visto, mostra o di avere letto il nostro documento in modo distratto – il che non è molto credibile riconoscendogli di essere un raffinato intellettuale – oppure di inventarne un’interpretazione di comodo, così da continuare nella pratica di affermazioni di principio solenni e di comportamenti chiaramente incoerenti. Nessuno sano di mente può pensare al nuovo Senato come “contropotere” della Camera dei Deputati o di chicchessia.

Nella Camera che non dà la fiducia ai governi devono essere però collocate funzioni che contribuiscono a definire “pesi e contrappesi”, tant’è che scendendo nel concreto – elezione del Presidente della Repubblica, della Corte Costituzionale, del CSM – a parole il senatore Quagliariello sostiene posizioni non diverse da quelle contenute nel nostro documento.

A parole, non abbiamo certo illusioni: l’esperienza, a chi le nutriva, le ha cancellate da un pezzo.
Da più gruppi parlamentari, a dire il vero, non solo da uno o da singoli esponenti, vi sono state incredibili amnesie politiche.

Ad esempio sulla legge elettorale – ormai approvata – si scoprono ora gravissime insufficienze, che erano state sollevate da senatori e deputati del Pd (sostanzialmente qui al Senato, gli stessi che hanno sottoscritto il documento per le riforme).
Solo che noi ci siamo assunti la responsabilità di non votarla: altri sollevano critiche forti dopo che, con il loro voto, ne hanno consentito l’approvazione.
La politica è fatta di coerenza, di chiarezza, di responsabilità: non di grandi enunciati di valore, subito dopo contraddetti nei comportamenti.
C’è un proverbio in Toscana: inutile chiudere le porte, quando la stalla è ormai vuota. E’ saggezza popolare, che dovrebbe guidare non solo la vita, ma anche la politica.
Sottolineo qui un’altra considerazione, per me centrale: sulle riforme costituzionali, sulle leggi elettorali, sono necessarie e devono essere ricercate le più ampie intese politiche. Ne parlerò più volte nel mio intervento. Ne sono convinto. Le più ampie convergenze politiche devono però essere ricercate in modo trasparente e serio: sono il contrario di operazioni di “trasformismo politico”, ammantate con bei nomi altisonanti – i responsabili, i liberali – ma costruite non per sviluppare, ma per chiudere un confronto vero.
E’ evidente per me che se avvenisse una sostituzione – sulle riforme o su qualsiasi altro provvedimento – di voti della maggioranza di governo, con voti di gruppi recentemente inventati, prima collocati all’opposizione, non saremmo di fronte ad un fatto politico archiviabile come un semplice episodio.
Determinerebbe una modifica nella maggioranza, che sostiene il governo.
Ciò richiederebbe le verifiche che la Costituzione – in questi aspetti non modificata né oggetto di modifiche – e le stesse regole parlamentari, esigono.
Penso sinceramente che l’invenzione di gruppi parlamentari di natura trasformistica, se fatti diventare protagonisti, non avvicinerebbe riforme serie, ma potrebbe mettere a rischio addirittura la tenuta della legislatura.
Per questo continuo a ritenere dichiarazioni in libertà, a livello di fantapolitica, interviste e proclami di protagonisti dei senatori autoproclamatisi “responsabili”.
Le valutazioni del Presidente del Consiglio, apparse sui giornali di oggi, confermano e confortano questo mio giudizio.
In questa nostra discussione, in modo autorevole, è stato posto un ragionamento sul senso del limite: ha un fondamento e se affrontato in termini giusti e corretti, in politica rappresenta certamente una virtù.
In questo caso, a proposito della riforma costituzionale, su cosa deve orientarci il senso del limite?
Prima di tutto deve guidare l’azione del Governo, che deve essere meno invadente e pressante, dal momento che sulla riforma costituzionale un ruolo centrale spetta al Parlamento.

Il Governo non deve certo essere assente o disinteressato: deve aiutare a trovare soluzioni e ad ampliare le convergenze. Non dovrebbe fare il costruttore di muri, ma di ponti.
In secondo luogo, il senso del limite deve guidare noi, la nostra consapevolezza di una situazione delicata, al cui interno dobbiamo operare: mi riferisco al fatto, inedito nella storia della Repubblica, che vede noi legittimati sul piano politico ad operare, a riformare la stessa Carta Costituzionale, ma eletti, al tempo stesso, con una legge – il cosiddetto porcellum – in più aspetti dichiarato incostituzionale. Come uscirne? Con un impegno al confronto, al dialogo, alla realizzazione di intese; a non lasciare nessun dubbio, neanche un pulviscolo sulle procedure che si seguono.
Ognuno di noi ne risponderà per le responsabilità presenti e per quanto lasceremo al futuro. Perché la Costituzione non parla solo nei giorni in cui si discute o si sottopone al voto. La sua efficacia si valuterà negli anni a venire e su di essa si misurerà – per ognuno di noi – la dignità di un impegno politico.
Riguardo a procedure e merito, per fare un esempio concreto, non siamo stati – molti di noi, parlo in primo luogo per me – all’altezza delle nostre responsabilità nel dicembre del 2011 quando abbiamo accettato che in un decreto legge che riguardava “disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici”, poi approvato con la fiducia da Camera e Senato, vi fosse un comma che riguardava il commissariamento di organi delle Province, democraticamente eletti dai cittadini.
In quella vicenda si sono registrati tre ordini di responsabilità, senza che nessuna di esse attenuasse quella degli altri: del governo di allora, che propose in un decreto una norma che forzava rispetto al tema del provvedimento e apriva una strada ad una visione della riforma della democrazia curvata sotto l’equilibrio dei conti e della spesa pubblica. Esiste un problema di sobrietà della politica, ma si deve affrontare in altro modo: con la riduzione del numero dei parlamentari (senatori e deputati); con una riorganizzazione delle indennità che equipari le nostre a quelle del sindaco della capitale, proposta avanzata da molti in campagna elettorale ed ora dimenticata; vi fu per quel decreto del 2011 una responsabilità anche del Presidente della Repubblica che lo firmò, validandolo e facendolo entrare in vigore; di noi parlamentari, di quanti lo votammo, curvandoci all’obbligo della fiducia.
La Corte Costituzionale in parte rimediò a quel vulnus, ma questa esperienza – di procedure che non siano le più limpide e garantiste – non può in altre forme e modalità riproporsi affrontando modifiche così impegnative e radicali della nostra Costituzione. Ritornerò su questo aspetto al termine del mio intervento. Voglio peraltro ricordare a noi tutti che in Sicilia o a Cagliari da 2 anni le Province sono ancora commissariate, in attesa di leggi regionali. Un’Italia a varie velocità e con un vestito istituzionale di Arlecchino, che rischiamo di rinnovare se non porremo in questo testo un termine di attuazione delle riforme per le Regioni a statuto speciale.
Inviterei anche i colleghi ad esaminare quanto sta avvenendo nelle Province: listoni elettorali da destra a sinistra per l’elezione di 2° grado dei Consigli e per l’elezione diretta – pur restando di 2° grado come diritto al voto – dei Presidenti.
Confusione o ancora non decisione nell’attribuzione di competenze, in poche Regioni; tendenze a ritorni di neo centralismi regionali in molte realtà; piccoli Comuni abbandonati a se stessi; non attribuzione di risorse – qui è efficace il taglio della spesa – e rischi per una parte del personale di non conservare la propria occupazione.
Ancora, il senso del limite, con il quale rivolgersi al nostro compito, deve orientarci non a costruire mediocri tattiche, accomodamenti con rabberci rispetto a problemi veri, né accondiscendenza al tanto peggio, tanto meglio, bensì a contribuire perché una riforma costituzionale, che è necessaria e urgente, si realizzi in modo coerente, producendo un positivo aggiornamento della Costituzione, non un complesso di norme contraddittorie, eterogenee, che mascherano un monocameralismo di fatto, con la finzione di un bicameralismo più confuso che differenziato.
Si vuole il monocameralismo? Si dica apertamente, si assuma con coerenza, certo non allora con la legge elettorale approvata e che entrerà in vigore il 1° luglio 2016.
Con altri, ad ora inediti, strumenti di garanzia e controllo; con nuovi ed efficaci canali di partecipazione dei cittadini, oltre le scadenze del voto per eleggere l’Assemblea legislativa nazionale.
La scelta annunciata, che risulterebbe, a certe condizioni, ampiamente condivisa, è quella di un bicameralismo, non più paritario.
In questo quadro la Camera dei Deputati risulta ad ora, nelle proposte, immutata e immodificabile: per coerenza con il senso del limite? Perché la Camera di 630 deputati funziona in modo adeguato, è già un’innovazione rispetto alla necessità di aggiornare la II parte della Costituzione a questi anni del XXI secolo? Oppure per un calcolo tattico, che rinuncia o non ha fiducia in larghe intese riformatrici, coerenti con le necessità di una democrazia moderna?
Per altro verso la riforma del Senato – in parte già per come è uscita dal nostro confronto un anno fa, ed ancor più per le modifiche introdotte dalla Camera – ci consegna un’istituzione che non é né garanzia né rappresentanza dei territori, né carne né pesce, per dirla in un linguaggio comune.
Quale è il cardine, attorno al quale si opera il superamento del bicameralismo paritario?
Prima però una considerazione sulle ragioni che impongono oggi il superamento del bicameralismo paritario per un rinnovamento delle istituzioni della democrazia: in via teorica per evitare un ping pong legislativo, o come si dice in termini tecnici la “navetta” dei disegni di legge tra Senato e Camera.
In termini concreti e attuali, non datati a qualche decennio fa, per superare una costituzione materiale che ha finito per concentrare il potere legislativo nei governi, progressivamente con un minor ruolo, anche riguardo alla fondamentale funzione di controllo, ad opera del Parlamento.
Basta prendere i dati di questa legislatura: l’82,6% dei disegni di legge approvati sono di iniziativa del governo, quasi il 50% sono decreti legge, altre leggi contengono deleghe con principi guida assai generali (lo si è visto nella vicenda della riforma del mercato del lavoro, nella scuola, nella Pubblica Amministrazione, nella Rai). Ad oggi dall’inizio della legislatura sono state poste 52 fiducie. Il tempo medio per l’approvazione dei disegni di legge di iniziativa governativa è di 49 giorni.
In questi anni è stata nei fatti superata la centralità delle Assemblee elettive: positiva, come era stato nei primi anni di vita della Repubblica il bicameralismo paritario, era poi diventata uno squilibrio non più sostenibile.
Il problema è che in Italia si sta procedendo nella riforma della Costituzione in modo approssimativo, contraddittorio: dalla centralità delle Assemblee elettive si è passati a quella degli Esecutivi, smarrendo un equilibrio – che invece resta fondamentale e andava costruito – tra rappresentanza e governabilità.
Così per il federalismo: annunciato 15 anni fa, ora sfigurato da un ritorno centralistico praticato in questo progetto di riforma.
La rappresentanza viene mortificata e impoverita a tutti i livelli: anziché riformare come in tutta Europa i Comuni, facendone un insieme di municipi, si sono trasformati molti consigli comunali, come numero di eletti, in una sorta di condominio.
Lo stesso è avvenuto nelle Regioni: il Veneto ha 50 consiglieri; la Toscana 40; 30 la Calabria; 20 l’Umbria.
Ogni Regione ha competenze legislative, 4-5 commissioni permanenti; delle commissioni faranno parte da 4 a 6 consiglieri, compresi quelli che dovranno strappare uno scampolo del loro tempo residuo per svolgere anche il compito di senatori!
Vorrei, per concludere questa parte del mio intervento, fare riferimento ad un libro importante, scritto nel 2003 da Leonardo Morlino: Democrazie e democratizzazioni. Prende in esame l’andamento dei processi di democratizzazione nel mondo ed affronta anche il caso italiano. Soffermiamoci ora su quest’ultimo. Cosa ci dice Morlino?
Cito: la democrazia italiana si colloca nel contesto delle democrazie, che dovrebbero porsi l’obiettivo di una crescita di qualità, ma che corrono il rischio concreto di una profonda involuzione e di un impoverimento.
… Una democrazia accresce la sua qualità se afferma il primato della legge nei confronti di tutti (erga omnes) senza eccezione alcuna, se realizza regole e strumenti per assicurare il controllo, un rapporto di responsabilità tra eletto ed elettore, e tra le istituzioni (Governo, Parlamento, Corte Costituzionale, Regioni e Comuni etc), se ha un sistema pluralista dell’informazione, che impedisca manipolazioni e condizionamenti. Su questa base, una democrazia di qualità assicura il rispetto pieno dei diritti, che possono essere ampliati nel realizzare le diverse libertà e sviluppa una progressiva uguaglianza politica, sociale, economica. La democrazia italiana sembra presa tra queste aspirazioni ed una realtà pesante, che sta trascinandola indietro. … una democrazia cioè a bassa capacità di controllo, sia istituzionale che da parte dei cittadini. Con in più la grave questione dell’informazione. La democrazia delegata o populista è quella nella quale “viene data la delega al momento del voto ma poi non vi sono altre e più efficaci modalità di controllare e far valere la responsabilità degli eletti … Il regime della rappresentanza … non esiste in concreto e viene superato da una presunta democrazia diretta in cui si instaura un rapporto non mediato, fatto di simboli, mentalità ed emozioni” tra una società civile e un leader politico al potere, spesso “un presidente o un primo ministro forte”. Fine della citazione
Ognuno di noi può riflettere con serietà se nei dodici anni che ci separano dall’uscita del libro, la situazione della democrazia italiana abbia affrontato e positivamente risolto le storture che la mettevano a rischio di un possibile impoverimento. Se queste criticità siano superate con il Progetto di riforma costituzionale, di cui ci occupiamo. Per il controllo esercitato attualmente dalle Camere, basta prendere in considerazione la risposta dei governi a interrogazioni, anche urgenti; l’attuazione di impegni assunti con l’approvazione di mozioni o ordini del giorno; gli stessi question time (al Senato addirittura flessibili e mobili); i rapporti di interlocuzione con i disegni di legge di iniziativa popolare.
Qual è allora il cardine che determina il superamento di un bicameralismo paritario? Questo: la sola Camera da’ la fiducia ai governi ed ha l’ultima parola sulle leggi non bicamerali.
Su questo obiettivo esiste una convergenza pressoché unanime in Parlamento.
Come realizzarlo? Prima di tutto evitando invenzioni, rammendi impresentabili, scorciatoie non degne di essere indicate per un testo costituzionale.
Il “come” riguarda l’articolo 2: non giriamoci intorno. Si viene spesso presentati come “testardi conservatori della elettività dei senatori da parte dei cittadini”: voler conservare la pienezza della sovranità ai cittadini, asse fondamentale e valore guida della Costituzione e della democrazia, è – se permettete – un dovere. Continuo a considerarlo un titolo di merito.
Resto convinto che consentire ai cittadini di eleggere direttamente i 95 senatori, in concomitanza con le elezioni regionali, sia la via maestra e preferibile.
È il percorso giusto per evitare nel nostro tempo un corto circuito, una contrapposizione tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta: la democrazia rappresentativa deve cogliere come un possibile arricchimento la volontà dei cittadini di partecipare, di assumersi le responsabilità nelle scelte, nel controllo, nel rifiuto di rilasciare deleghe.
A destra e a sinistra è terminato il tempo dei giacobinismi: se non si vuole il populismo antidemocratico, si devono trasformare le culture politiche, abbandonare le concezioni di un moderno Principe, di èlites che guidano le masse. Oggi ci sono le persone, le loro individualità, le loro relazioni sociali, i diritti-doveri di una nuova cittadinanza non più fondata sullo ius sanguinis, le regole democratiche da rinnovare per assicurare ancora il primato della democrazia rappresentativa, che per realizzarsi richiede però di essere fondato sulla capacità di sentire come complementare quella diretta.
L’elezione dei senatori da parte dei cittadini non precede in astratto, ma segue in concreto e in modo coerente il discorso sulle competenze da attribuire al Senato e sulle materie su cui mantenere un carattere bicamerale.
Questo orientamento si rafforza come scelta preferenziale dopo l’avvenuta approvazione della legge elettorale: l’italicum.
Questa legge, a forte impronta maggioritaria, risolve i problemi della governabilità, modificando nella sostanza la forma governo: viene introdotto un premierato forte.
Il Primo Ministro è scelto dai cittadini ed ha una maggioranza del 55% dei seggi alla Camera.
Sarà bene – meglio se in questa stessa legislatura, una volta portata a compimento la riforma costituzionale di cui ora discutiamo – affrontare in Costituzione, definendoli, i suoi poteri, anziché lasciandoli ancora una volta alla pratica quotidiana, ad una costituzione materiale che soffoca la nostra Carta fondamentale.

Il Primo Ministro avrà il potere di proporre e revocare i ministri? Mi parrebbe ovvio. E per lo scioglimento anticipato della Camera quale sarà il suo ruolo rispetto a quello del Presidente della Repubblica? Sarà introdotta e in quale forma la sfiducia costruttiva, oppure, essendoci un premio di maggioranza alla lista vincente, si determinerà anche per il Parlamento quel “simul stabunt, simul cadent” rispetto al Primo Ministro, che sta provocando danni democratici seri nella vita delle Regioni?
In tutte le grandi nazioni europee i Primi ministri hanno forti poteri politici; ma dalla Gran Bretagna alla Germania alla Spagna, sono controllabili ed anche revocabili dai Parlamenti.
Sono dunque domande pertinenti.
Ritengo anche che mantenere l’elezione diretta dei senatori in concomitanza con il voto per le Regioni, comporti – a proposito di senso del limite – il più contenuto quadro di modifiche al testo approvato dalla Camera: l’inserimento di questo aspetto nell’articolo 2, rinviando come è giusto il resto ai principi di una legge elettorale ordinaria.
Al tempo stesso si può prevedere – sempre all’articolo 2 – la partecipazione dei Presidenti delle Regioni a sedute del Senato.

Attraverso queste scelte si rafforza il collegamento con i territori del nuovo Senato; si mantiene la forte legittimazione garantita dal voto diretto dei cittadini. Se qualcuno continuerà a dire che così si tiene aperta la finestra per reintrodurre al Senato il voto di fiducia ai governi, vuol dire che usa in modo spregiudicato argomentazioni strumentali oppure che ama dire sciocchezze. Si possono ampliare – tenendo per questi aspetti come riferimento il testo che venne approvato in questo ramo del Parlamento – le competenze del Senato, ripristinando funzioni di controllo sulle politiche pubbliche (che la Camera ha cancellato); sulle nomine ai vertici dello Stat; su quelle delle Authority. Questo ragionamento vale anche per la modifica del Titolo V: il testo votato al Senato era più equilibrato, pur spostando alcune competenze sullo Stato centrale. La Camera ci restituisce un progetto di neo centralismo, coronato addirittura da una “clausola di prevalenza”, normalmente presente negli ordinamenti federali, non in quelli centralistici. I Presidenti delle Regioni sembrano presi da un sonno beato, ma noi dobbiamo pensare all’Italia, all’interno di una democrazia sovranazionale europea da costruire; saper leggere nelle tendenze profonde delle società moderne, non riferirci alla disattenzione acritica di gran parte della classe politica regionale attuale. Se si guarda alla Scozia, alla Catalogna o al Belgio – e potrei continuare – si comprende che la vocazione dei territori a rappresentarsi e valorizzare le proprie potenzialità, è un dato del presente e del futuro, non del passato: da governare, non da archiviare.

Allo stesso modo si tratta, a mio giudizio, di ripristinare l’autonoma elezione da parte del Senato dei componenti ad esso spettanti nella Corte Costituzionale. Sulle materie da mantenere in un ordinamento di bicameralismo paritario, oltre la Costituzione, i referendum, i trattati con l’Unione Europea, invito ognuno di noi ad una riflessione: le leggi elettorali per le elezioni politiche è opportuno siano nelle prerogative pressoché esclusive di una maggioranza che vince le elezioni alla Camera?
Ugualmente per la libertà religiosa, a partire dalle leggi attuative del Concordato con la Chiesa Cattolica (art. 7) e delle intese con le altre confessioni religiose (art. 8); per i fondamentali diritti civili dei cittadini; per le leggi di natura etica quali quelle sull’inizio o il fine vita.
Non si tratta di decine di competenze: sono invece alcuni temi fondamentali e precisi, che non richiedono tempi di decisione istantanei o comunque rapidissimi, ma al contrario esigono la saggezza di un tempo di confronto politico; di ascolto, anche di esperti; che traggono beneficio dagli approfondimenti di una Camera che non ha tra i suoi compiti quello della fiducia ai governi.
Qui, se si vuole ancora utilizzare come criterio il senso del limite, occorre dire che ad una maggioranza di governo alla Camera non può essere consentito su queste tematiche di procedere in modo autosufficiente, a passo di carica come se si trattasse dell’attuazione del programma di governo. Poterlo fare, consentirlo in Costituzione, significa assumersi la responsabilità di moltiplicare tra gli italiani conflitti su temi delicati, che incidono su convinzioni profonde, sui quali la politica deve darsi regole che impongono equilibrio, capacità di mediazione. Abbiamo rischiato e saputo evitare bipolarismi etici: mi guarderei bene dal lasciare spazi aperti alla loro riproposizione.
Voglio per ultimo sottolineare che la scelta della elezione dei senatori da parte dei cittadini in concomitanza con il voto per le regionali, consentirebbe di risolvere altre questioni emerse e non sottovalutabili: da quella dell’immunità dei parlamentari a quella della elezione del Presidente della Repubblica.

Per quest’ultima potrebbe essere ampliata – visto che il Senato avrà 100 componenti – la platea dei delegati regionali e inseriti i sindaci ad esempio dei comuni capoluogo.
Non sono pervicacemente legato ad una sola soluzione, per la riforma del Senato. Ho detto che l’elezione diretta è la via maestra e per me preferibile.
Si vogliono seguire altre strade? Non si può però prendere la Costituzione come un fiore, da sfogliare petalo a petalo, facendo poi degli innesti casuali e contraddittori, che producono un impoverimento della democrazia ed un peggioramento nel funzionamento delle sue istituzioni.

Si guardi alle grandi nazioni europee. Si vuole scegliere la soluzione della Germania? Il Bundesrät è composto in modo automatico dai soli rappresentanti dei governi regionali; il voto è unitario per delegazioni territoriali; le competenze sono ampie, non come quelle che l’attuale testo ci consegna per il futuro Senato italiano. Soprattutto il procedimento legislativo comporta che la Camera – il loro Bundestag – per non tener conto delle proposte del Senato, deve respingerle con un consenso di voti equivalente.
Infine la legge elettorale per la Camera prevede un 50% di seggi uninominali e un 50% di proporzionale, con sbarramento al 5%.

Questo è il modello tedesco, al quale il Bundesrät si collega in modo indissolubile. Modifica radicalmente, quasi del tutto, il Progetto di riforma costituzionale che ha preso avvio da noi: rimette oggettivamente in discussione anche la legge elettorale, di recente approvata, obiettivo che – quale che sia il giudizio su di essa – non è stato posto nel documento dei senatori Pd. La rimette in discussione perché risulta chiarissimo che Bundesrät più Italicum non darebbero come esito il modello tedesco, ma una subalternità del Parlamento ai Governi.
Si intende andare verso un complessivo modello tedesco? Ci sono le condizioni politiche?
Si deve parlare però di un Progetto complessivo, non di un comma o di un’appendice. Lo ripeto per chiarezza: Bundesrät come composizione e sistema di voto; come competenze; come procedimento legislativo, ma anche in aspetti fondamentali come legge elettorale per la Camera, come modello del Cancelliere per la guida del Governo.
Per quanto per me, in Italia, sia oggi meno convincente, se la gran parte delle forze politiche vi si ritrovasse, sarei pronto a sostenerlo. Ma è indubbio che rappresenterebbe un’inversione ben più radicale delle proposte sulle quali mi sono soffermato.

Ritengo, come ho detto all’inizio del mio discorso, che occorra un’ampia intesa politica: se si realizza, allora il testo che uscirà dal Senato, quale che siano le modifiche apportate, verrà sostenuto anche alla Camera dai gruppi che l’hanno sottoscritto e la riforma costituzionale avrà un esito positivo.
È questo il mio proposito: un fallimento sarebbe la sconfitta della politica, del Parlamento, non di una maggioranza di governo.

Quello che è centrale per me è che i senatori di domani risultino eletti con una automaticità: questo esito ce lo da’ in primo luogo il voto dei cittadini; ce lo da’ anche, se preso nel suo insieme, il modello tedesco. Non è invece il risultato che produrrebbe la riforma italiana, così come è impostata: sappiamo tutti che tra il voto dei cittadini e quello dei Consigli regionali che eleggeranno, in secondo grado, i senatori, si apriranno inevitabilmente trattative tra maggioranze e opposizioni, nelle maggioranze e nelle opposizioni.

Né in ogni Regione, negli accordi politici, il peso sulla base del quale si individueranno i senatori, equivarrà alla medesima attribuzione compensativa di assessori, o di altri ruoli istituzionali.
È uno dei principali motivi che rende precario e per me non condivisibile il progetto di riforma.
Da qualche parte si sono sollevate considerazioni sulle eccessive competenze contenute nella indicazione del documento che io ho sottoscritto insieme ad altri colleghi: invito chi avanza queste valutazioni a prendere in esame le competenze che restano attribuite al Senato francese, pur essendo eletto da un numero più ristretto di persone (consiglieri comunali, di dipartimento, regionali, deputati all’Assemblea nazionale e al Parlamento europeo).

Il Senato italiano rischia di passare in Europa da un ruolo primario per competenze, responsabilità, modello di legittimazione popolare, ad una collocazione insignificante tra le cosiddette Camere alte. Attualmente avrebbe una funzione più incisiva la stessa Camera dei Lord, come è noto composta senza alcuna forma di elettività!
Non è un problema che riguardi i senatori attuali o futuri: riguarda la democrazia, la sua necessità di assicurare rappresentanza e governabilità, partecipazione ed equilibri tra le istituzioni.
Del resto il Presidente del Consiglio Renzi ha pubblicamente affermato che con l’approvazione dell’Italicum sarebbe stato necessario individuare nella riforma costituzionale dei “pesi e contrappesi”, con ciò riconoscendo evidentemente che quelli previsti non erano sufficienti, adeguati o che addirittura erano assenti.

Sono abituato a prendere sul serio le parole dette pubblicamente da chi ha in democrazia una delle più alte responsabilità: quella di guidare il Governo. In questo caso ancor più, perché è anche il segretario del mio partito. La credibilità non è una merce non deperibile: come l’autorevolezza, si alimenta di coerenze, soprattutto tra il dire e il fare.
Per questo mantengo un atteggiamento di fiducia.
Un’ultima considerazione: sull’ammissibilità di emendamenti all’articolo 2, sul quale peraltro, la Camera ha comunque introdotto modifiche.
Scegliere la linea di un’interpretazione chiusa sarebbe in contrasto, e così apparirebbe, rispetto alla volontà di un confronto per ampliare le convergenze.
Il Presidente del Senato avrà l’ultima parola e certamente va rispettata, senza pressioni o condizionamenti politici di nessun genere.
Anche a noi, ad ognuno di noi, spetta però una riflessione ed una assunzione di responsabilità. Ammissibilità non significa condivisione.

Ed ha un precedente non irrilevante al quale guardare: nel 1993, di fronte ad una riforma costituzionale, in riferimento all’articolo 68, cioè all’autorizzazione da parte delle Camere per perquisizioni personali, domiciliari o arresto dei membri del Parlamento; al non poter essere i parlamentari chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni, il Presidente del Senato Spadolini permise la presentazione di due emendamenti per introdurre nuovi commi, senza riferimento a modifiche intervenute alla Camera dei Deputati, facendo prevalere l’impegno per realizzare sulle modifiche alla Costituzione ampie intese, rispetto a ristrette e assai discutibili vecchie prassi che hanno un senso, una motivazione, quando si sia di fronte a leggi ordinarie. Secondo un’interpretazione burocratica, ci si sarebbe dovuti limitare a prendere atto della soppressione di un comma, operata proprio dal Senato e confermata dalla Camera. L’articolo dunque – lo ripeto – non aveva subito cambiamenti. Il Presidente Spadolini, sulla base di una convinta iniziativa della commissione referente, permise l’inserimento di nuovi commi e il Presidente della Camera Giorgio Napolitano non contestò, ma a sua volta ammise il testo modificato dal Senato, consentendo addirittura la presentazione di emendamenti, rispetto alle innovazioni che vi erano state introdotte. Uno dei due commi fu poi approvato definitivamente ed entrò a far parte della nostra Carta fondamentale.
Voglio richiamare all’attenzione di noi tutti un aspetto: quel Senato e quella Camera, che decisero di operare questa “navetta” costituzionale, erano stati eletti con una legge proporzionale, una legge poi cambiata, superata, per scelte politiche non certo perché dichiarata in qualche suo punto incostituzionale dalla Corte.

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