Ilva Taranto, dritti verso il baratro

Dopo il sequestro degli impianti da parte della magistratura nel 2012 il nono, l’ennesimo, decreto salva-Ilva è realtà. Non ci è voluto molto, in verità, per approvarlo, pare ormai quasi una procedura automatica, meccanica, fredda. Indegna di un paese che si direbbe democratico. 

In cosa consiste tale decreto? Proviamo a fare un passo indietro per comprendere appieno le presunte strategie del governo. 

A novembre, il tribunale federale di Bellinzona ha bloccato il rientro di 1,2 miliardi di euro sequestrati ai Riva a seguito delle inchieste della procura di Milano. Secondo i pm Clerici e Civardi, infatti, tale patrimonio era stato trasferito, dopo essere stato distratto dai capitali della Fire Finanziaria (poi diventata Riva Fire), nel paradiso fiscale dell’isola di Jersey. Sarebbe in seguito stato occultato in otto trust e riemerso solo con l’introduzione dello scudo fiscale nel 2009. 


La sentenza del tribunale è stata negativa poiché «i valori patrimoniali sono soltanto presumibilmente e non manifestatamente di origine criminale».
Viene scritto, inoltre, che «dall’Italia non sono arrivate le garanzie che le persone perseguite, se dichiarate innocenti, non subirebbero nessun danno» e, motivazione più emblematica di tutte, «i valori in questione sarebbero subito convertiti, senza che vi sia una sentenza di confisca cresciuta in giudicato ed esecutiva, in obbligazioni di una società in fallimento, soggetta a commissariamento straordinario»
E ciò «costituirebbe», dunque, «un’espropriazione senza un giudizio penale».
Questa decisione rende nulla, di fatto, la garanzia, per le banche, del rientro in tempi brevi del prestito di 800 milioni di euro (che si andavano a sommare ai 400 milioni provenienti dalla Cassa Depositi e Prestiti) che il governo aveva previsto nell’articolo 469 della legge di Stabilità come garanzia dello Stato italiano nei confronti delle banche che avrebbero fornito i capitali necessari per le attività di risanamento previste dal piano ambientale.
In questo nono decreto il governo Renzi non si smentisce e continua in un’opera autolesionista, ma soprattutto lesiva dei diritti fondamentali dei lavoratori di Ilva e dell’indotto e dei cittadini di Taranto, seguendo tre linee fondamentali: un ulteriore prestito ponte all’azienda, lo slittamento della realizzazione delle prescrizioni AIA e le nuove condizioni per la vendita dello stabilimento.
Proviamo ad analizzare questi punti.


L’ulteriore prestito ponte all’azienda di 300 milioni di euro arriva proprio nel momento in cui la Commissione Europea ha intensificato le sue indagini sui presunti aiuti di Stato nei confronti dell’Ilva.
La garanzia pubblica a beneficio dell’Ilva, infatti, da tempo ha attirato l’attenzione della Commissione Europea, sollecitata anche dall’azione dell’associazione PeaceLink.
Secondo l’articolo 107 del TFUE (Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea), infatti, «salvo deroghe contemplate dai trattati sono incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza».
Ora quella garanzia pubblica a vantaggio dell’Ilva sta ulteriormente attirando l’attenzione di Bruxelles. La Commissione starebbe, dunque, valutando l’eventualità di ingiungere l’interruzione immediata del sussidio e, nella lettera indirizzata a PeaceLink in data 28 novembre 2015, la Commissione Europea Concorrenza ha confermato che il Commissario Margrethe Vestager ha agito in modo tale che la questione diventi «una priorità assoluta.
Il governo è a conoscenza che la Commissione sta indagando sui prestiti già erogati, perché, dunque continua nella sua azione sapendo che ci sono alte probabilità che quei capitali vengano bloccati? Perché quei capitali non vengono indirizzati verso un piano di sviluppo che dia un futuro agli operai di Ilva e indotto e alle loro famiglie e ridia speranza agli allevatori, agli agricoltori, ai mitilicoltori danneggiati dall’azione inquinante dell’Ilva? Perché non destinarle alle bonifiche di un territorio martoriato su più fronti dal punto di vista ambientale?


Cui prodest? Non è dato saperlo
Un secondo provvedimento è lo slittamento del termine ultimo per la realizzazione delle prescrizioni AIA fino al 31 dicembre 2016. Il ministro dell’ambiente Gianluca Galletti aveva dichiarato a proposito delle prescrizioni che «a tutt’oggi l’Ilva rispetta tutte le Bat (Best available techniques, ndr): tutti i limiti di emissione europei oggi a Taranto sono rispettati» e che «Il piano di ambientalizzazione prevedeva degli step intermedi – ha dichiarato – uno di questi era la realizzazione dell’80% delle prescrizioni entro il 31 luglio 2015. Oggi possiamo dire con certezza, perché certificato dall’Ispra, che il primo step è rispettato».
Peccato che le prescrizioni fossero espresse in percentuali il che, come più volte sottolineato quando è stata approvata questa procedura, ha fatto sì che tuttora siano assolutamente incompiute le opere di maggiore rilevanza ambientale come la copertura dei parchi minerali.


Inoltre, a tal proposito, siamo venuti a conoscenza negli ultimi giorni che a Taranto, quando il vento soffia dalla zona industriale, i cittadini hanno le ore d’aria.
La Asl cittadina, infatti, ha inviato al sindaco Ippazio Stefano «una serie di raccomandazioni utili per minimizzare l’esposizione a polveri sottili della popolazione della città» e ha stabilito tre livelli di allerta.
Nell’allerta 1, ovvero quando il livello di inquinamento è considerato alto, è meglio lasciare aperte le finestre solo tra le 12 e le 18.
Nell’allerta 2, ovvero il giorno prima che la città sia sottovento rispetto all’area industriale (vento da N/O), le raccomandazioni sono le stesse, ma solo per minori ed anziani.
L’allerta 3 si concretizza quando la città è effettivamente sottovento ed è consigliato a «tutta la popolazione di programmare eventuali attività sportive all’aperto nelle ore in cui i livelli di inquinamento sono inferiori, ovvero fra le ore 12 e le 18».


«Sennò è meglio tapparsi in casa» ha dichiarato Angelo Bonelli, consigliere comunale ed ex portavoce nazionale dei Verdi.

L’allarme sulle emissioni era stato lanciato più volte da Peacelink, non solo sul suo sito ufficiale, ma anche sulla pagina facebook Peacelink Air Monitoring con rilevamenti di IPA giornalieri. In particolare, Alessandro Marescotti, presidente dell’associazione, aveva anche chiesto al sindaco di emettere un’ordinanza di chiusura della cokeria Ilva.

È qui presente la relazione sullo stato dell’aria a Taranto con riferimento ai picchi di IPA e di Pm10 in occasione dei cosiddetti “wind days” sopracitati.
Assolutamente preoccupante, infine, è il terzo punto fondamentale del decreto. Esso prevede che le procedure di trasferimento a terzi della gestione vengano messe in atto entro il 30 giugno 2016 e che i criteri per l’aggiudicazione siano valutati anche in base alla rilevanza ambientale. Nello stesso momento, però, si permette al vincitore dell’asta pubblica di proporre un nuovo piano ambientale, formulato, però, ovviamente, in base al piano industriale. Tale piano ambientale sarebbe, dunque, sottoposto al giudizio di alcuni “saggi”.
La prima, legittima, preoccupazione è: chi saranno questi “saggi”? E poi, con che criterio saranno scelti? Saranno presenti le parti sociali di Taranto? Saranno presenti i rappresentanti delle istituzioni, compresi quelli imputati nel processo Ambiente Svenduto? 


Al di là di questo, l’ultimo punto presenta anche un difetto di fondo.
L’ultimo decreto del dicembre 2014 era arrivato proprio dopo che il governo non era riuscito a vendere l’Ilva ad Arcelor Mittal. Allo stato attuale, Ilva ha i conti ulteriormente peggiorati con perdite mensili che oscillano intorno ai 50 milioni di euro al mese. Ilva è per il 78% sotto sequestro della Magistratura ed è stata considerata dal tribunale svizzero, appunto, una società fallita.
Arcelor Mittal ha già acquistato, in Francia, acciaierie semplicemente per eliminare la concorrenza chiudendole, ma attualmente vive anche una profonda crisi sotto l’ascia di una crisi mondiale della siderurgia.
Solo nel terzo trimestre, infatti, il terzo consecutivo in perdita, il gruppo franco-indiano-lussemburghse ha perso 711 milioni di dollari e la società ha anche visto al ribasso le stime per il 2015.
Tutto questo non sarà altro che, dunque, altro fumo negli occhi per i lavoratori dell’Ilva di Taranto e dell’indotto lasciati privi di un piano alternativo per il loro ricollocamento ed illusi che il governo avrebbe rimesso in piedi un’azienda la cui fine è stata sancita, in realtà, già da tempo, dal mercato siderurgico stesso.
Gli operai e le loro famiglie vengono lasciate nelle mani della sorte di un acquirente che potrebbe non arrivare mai e che, anche nel caso in cui arrivasse, si troverebbe una situazione catastrofica.
Nel frattempo, i cittadini di Taranto sono giornalmente privati dei loro diritti fondamentali: del diritto alla salute, del diritto al lavoro, del diritto all’autodeterminazione.
Invochiamo, ancora una volta, l’apertura di un tavolo per un piano B per la città che ricollochi gli operai nell’opera di bonifica e che punti a valorizzare in un piano industriale serio le risorse del territorio quali quelle agroalimentari, turistiche ed archeologiche.
Taranto ha già pagato abbastanza le scelte di una politica miope ed asservita ai grandi interessi che potrebbe portare la città dritta nel baratro.

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