Da Forza Italia a Forza Italicum

ROMA – Per comprendere fino in fondo cosa sta accadendo nel mondo renziano e, di conseguenza, nel quadro politico nazionale, è necessario leggere l’analisi di uno dei suoi più convinti cantori: il direttore de “Il Foglio”, Claudio Cerasa. Scrive Cerasa: “Alla fine si torna sempre lì, al Partito della Nazione, alla convergenza repubblicana, al Patto del Nazareno, se vogliamo, che non c’è a livello istituzionale ma esiste ormai nella testa degli elettori, e che lo si voglia o no il tema sarà cruciale nel corso di tutto il 2016.

Sia alle amministrative, prima, sia, successivamente, durante il referendum costituzionale. Guardate cosa sta succedendo a Milano, a Torino, a Roma. Guardate cosa sta succedendo attorno al comitato del “sì” e attorno al comitato del “no”. Sul secondo punto, sul destino del referendum, la partita è esplicita ed è sotto gli occhi di tutti. E nonostante la minoranza del PD minacci di fare sfracelli qualora il presidente del Consiglio cada nella ‘tentazione’ di trasfigurare la partita referendaria facendola diventare un plebiscito sul renzismo e provando a trasformare il PD in un PDN il punto è proprio quello: il PD oggi o è un inclusivo Partito della Nazione capace di attrarre nuove energie e nuovi elettori emancipandosi del tutto dalla vecchia sinistra, o semplicemente non è, non esiste, è finito, kaputt”. E aggiunge: “L’incompatibilità tra sinistra e PDN è evidente e lo sarà soprattutto a Roma dove la formula del Partito della Nazione verrà incarnata non solo dall’esponente del PD(N) Roberto Giachetti ma soprattutto da Alfio Marchini che qualora dovesse arrivare al ballottaggio, magari contro il Movimento 5 Stelle, chissà, potrebbe trasformare rapidamente Roma nella Capitale del Nazareno e del Partito della Nazione (Berlusconi stravede per Marchini). Spunti, suggestioni e traiettorie politiche destinate a incrociarsi naturalmente anche a Milano dove, qualora dovesse affermarsi alle primarie, Giuseppe Sala (PDN) ha tutte le caratteristiche per essere il perfetto candidato dell’elettore della nazione e attrarre elettori non solo strettamente del PD (‘La verità – ha confessato qualche settimana fa Berlusconi – è che Giuseppe Sala è un uomo del centrodestra, lo è sempre stato. Altro che PD… Me lo presentò Bruno Ermolli e ha collaborato attivamente con la giunta Moratti. Pensa che uno così possa essere votato dalla sinistra?’). La formula del PDN, può piacere o no, è entrata nel dna della politica e anche se la sfida è complicata Renzi non ha alternative per vincere la sua partita: o il PD cambia pelle, e aggiunge una N dopo P e D, o il Partito Democratico è destinato a morire, a essere spolpato e cotto a fuoco lento, e rimanere ostaggio di una sinistra che non aspetta altro che rottamare il presidente del Consiglio. Torino, Roma, Milano, referendum. Il Partito della Nazione, volendo, può nascere anche così”.

Un’analisi impeccabile, redatta da uno che il mondo renziano lo conosce bene e ne sa scrutare nel profondo le caratteristiche, essendo del resto l’attuale presidente del Consiglio colui che sta portando a compimento un antico sogno fogliante. Da quelle parti, infatti, sono anni che magnificano Monti, sostengono le larghe intese chiunque sia a guidarle e auspicano, neanche troppo segretamente, una fusione tra la fu destra e la fu sinistra, cioè un minestrone indistinto e, naturalmente, post-ideologico nel quale far confluire l’ala destra del fu PD e quella parte della destra ufficiale che non se la sente di assecondare la deriva salviniana della fu coalizione dei “moderati”.

D’altronde, basta conoscere la recente storia del nostro Paese per sapere che è dal 2011, fin dal primo giorno del governo Monti, che autorevoli opinionisti e commentatori ci spiegano che è arrivato il momento di dar vita a ciò che sta, di fatto, realizzando Renzi: un unico partito che annulli tradizioni e identità, passioni e contrapposizioni storiche in nome delle mitiche “riforme strutturali di cui ha bisogno l’Italia”, ossia di un’ulteriore iniezione di liberismo selvaggio a scapito dei ceti sociali più deboli.

Solo pochi mesi prima, in seguito alle vittorie di Milano e Napoli e al trionfo nel referendum su acqua pubblica, nucleare e legittimo impedimento, ci eravamo illusi che potesse finalmente diventare realtà una sinistra con un’adeguata cultura di governo: laica, aperta, repubblicana, attenta alle esigenze e alle richieste provenienti dai movimenti e dalla società civile, realmente alternativa alla destra berlusconiana e in grado di mandare a casa il principale artefice del nostro declino.

Ci sbagliavamo, e già allora, nella redazione de “Il Foglio”, Giuliano Ferrara si inventava un rap per consigliare a Berlusconi di tenersi da conto Monti, individuando, con la consueta arguzia e conoscenza delle vicende della politica, quale fosse la strada da seguire per realizzare il “sogno” di tagliare fuori le ali estreme e costruire un grande blocco di potere centrista imperniato sulle forze che sostenevano all’epoca il governo tecnico.

Purtroppo Bersani, anche in quell’occasione, non si rese conto della trappola e quando se ne accorse, era ormai troppo tardi: la riforma Fornero, le tensioni con i sindacati, le rotture dolorose con la FIOM, l’allontanamento dell’IDV in direzione Ingroia ma soprattutto l’esplosione, meritata, comprensibile e per nulla silenziosa, del Movimento 5 Stelle condussero il PD e la coalizione Italia Bene Comune ad una vittoria mutilata che fu per molti parlamentari il segnale del liberi tutti. 

I centouno, infatti, non sono stati un infortunio ma una precisa scelta politica: la svolta definitiva di un partito che già nel 2013 con la sinistra non c’entrava più nulla e che voleva a tutti i costi le larghe intese caldeggiate da Napolitano per poter dar vita ad un nuovo soggetto che rompesse per sempre col passato, relegasse ai margini chi si opponeva a questo disegno e andasse avanti come un caterpillar nel solco tracciato dalla finanza internazionale, dalle grandi banche e dalla tecnoburocrazia di Bruxelles.

Perché ormai non si tratta di governare seguendo una visione, un’ispirazione ideale, una certa idea del mondo e della comunità: ormai si tratta di governare e basta, a prescindere; e pazienza se questo partito unico radicato in numerosi paesi europei non rappresenta praticamente nessuno se non gli interessi prima menzionati, pazienza se milioni di cittadini si stanno progressivamente allontanando da una politica che non conta più nulla e ha, di fatto, smarrito la propria ragione di esistere, pazienza se questo modo di governare acuisce le diseguaglianze al punto che, stando ai dati forniti dall’ultimo rapporto di Oxfam, le sessantadue persone più ricche del mondo possiedono la stessa ricchezza dei tre miliardi e seicento milioni di poveri della Terra, pronti persino a morire pur di scappare dall’inferno in cui sono costretti a vivere, pazienza perché l’unica cosa che conta è la propria poltrona, il proprio “particulare”, i propri iniqui privilegi, la propria sete di potere e di denaro, il proprio benessere a discapito di quello altrui. Pazienza se questo modello insostenibile ha corroso la passione e l’impegno civile, se ci ha reso tutti più miseri e più fragili, se ha distrutto il concetto stesso di collettività, se ha svuotato le piazze e riempito i centri commerciali, se continua ad illuderci con quel falò delle vanità che è il consumismo sfrenato, se un’intera generazione non avrà un domani e se gli ultimi del mondo saranno sempre più ultimi; pazienza perché i nostri eroi, comodamente assisi sulle loro poltrone, al pari dei commentatori che li incoraggiano a proseguire lungo questa strada, hanno raggiunto il proprio obiettivo e del prossimo non gliene importa nulla.

Ampliando lo sguardo e andando al di là delle beghe da cortile cui stiamo assistendo e sempre di più assisteremo nelle settimane e nei mesi che verranno, è questo il terreno di coltura del Partito della Nazione, sono questi i suoi obiettivi e le sue finalità e Renzi non è altro che il migliore interprete, l’istrione in grado di reggere il gioco e bucare lo schermo, di tenere banco e muovere i fili, ben sapendo di avere a che fare con gente che ormai, in molti casi, non coltiva più alcuna ideologia, alcuna speranza, alcuna passione civile, il cui unico interesse è quello di restare a galla e di mantenere la propria posizione sociale, dunque è disposta a votare ogni controriforma senza colpo ferire. 

Vale per il PD e vale, a maggior ragione, per gli orfani di un mondo che non c’è più, di una stagione finita e destinata a non tornare, di quanti, nel fu centrodestra, vogliono mettersi in salvo dal salvinismo che non garantisce né prospettive di governo né, di conseguenza, la gestione di preziose fette di potere e di interessi.

Per questo Renzi, in barba al galateo istituzionale (del quale, del resto, non gli è mai importato niente), ha deciso di trasformare il referendum costituzionale in un plebiscito su se stesso e sulla propria azione di governo: vuole legittimare il proprio operato attraverso il voto popolare, certo, ma soprattutto vuole sublimare un progetto iniziato cinque anni fa con la benedizione di Napolitano e giunto ormai a compimento, con la scomparsa del PD e la nascita di un nuovo agglomerato di potere, indistinto e onnicomprensivo, che ha come unica ideologia aggregante la permanenza al governo.

Che poi con l’Europa siamo nuovamente ai ferri corti, che questo modo di fare spaccone e sempre all’assalto non funzioni e rischi di arrecare danni irreparabili alla credibilità del Paese, che l’autonarrazione di una fantomatica epopea renziana abbia iniziato a stufare, che i risultati siano nettamente al di sotto della propaganda governativa e mediatica, che questo mito dell’“uomo solo al comando” condanni chi se ne fa portatore all’isolamento e lo esponga al rischio di trovarsi nudo di fronte al riacutizzarsi di una crisi dalla quale siamo tutt’altro che fuori, che questo leaderismo esasperato ed esasperante abbia sconcertato centinaia di migliaia di militanti storici della sinistra che non hanno rinnovato la tessera e si sono rifugiati ormai, prevalentemente, nell’astensione o nel Movimento 5 Stelle; insomma che questo progetto sia ampiamente fallimentare, come si evince dalle esperienze di tutti i paesi in cui è stato sperimentato, non smuove minimamente una classe dirigente inadeguata e intenta unicamente a vantarsi davanti allo specchio e a complimentarsi con se stessa per i risultati (inesistenti) ottenuti, in un tripudio di autoreferenzialità che ha da tempo stancato anche alcuni di coloro che all’inizio avevano guardato al renzismo con simpatia e benevolenza.

A loro, tuttavia, va bene così e il motivo lo spiega ancora, da par suo, il buon Cerasa: “Il referendum costituzionale – che non a caso Renzi organizzerà via Leopolda e non via PD – sarà un banco di prova importante per sottrarre al centrodestra quegli elettori che comprensibilmente non potranno che sentirsi a disagio dall’essere entrati a far parte non solo di una coalizione la cui golden share al momento è ben salda nelle mani di Donald SalvinTrump ma anche di un movimento elettorale, quello del comitato del NO, in cui Forza Italia si ritrova ad appoggiare le stesse tesi sostenute dai Rodotà, dagli Zagrebelsky e persino – aiuto! – da Magistratura Democratica”. 

In pratica, secondo il direttore de “Il Foglio”, l’elettorato berlusconiano non ha alternative al diventare renzista, in quanto l’uomo di Rignano ha fatto suoi tutti gli argomenti e le battaglie storiche della destra, al fine di sostituire con i voti in libera uscita da Forza Italia quelli di coloro che, come chi scrive, a costo di restare senza casa o di trascorrere molto tempo all’opposizione, si rifiutano di prender parte a questa drammatica orgia del potere.

A tal riguardo, sbagliano profondamente i 5 Stelle ad illudersi di poter sfidare questa macchina così ben congegnata con la sola forza della propria esibita e rivendicata onestà e con il proprio splendido isolazionismo anti-kasta, restio a confondersi con chiunque abbia avuto qualsivoglia responsabilità di governo negli ultimi vent’anni; sbagliano e denotano, specie ai vertici, una drammatica immaturità politica che rischia di vanificare sia le tante buone intuizioni e proposte che li caratterizzano sia quella prospettiva di governo (che non è il governismo fine a se stesso) senza la quale si scade nel minoritarismo velleitario e inconcludente.

Ma ancor più sbaglia quella minoranza dem che si espone davvero al ridicolo nel momento in cui si ostina a non prendere atto della mutazione genetica ormai irrimediabile di un partito che non è e non sarà mai più quello in cui molti di noi si sono riconosciuti per anni, vanificando ogni tentativo di ricostruire quel campo largo e civico della sinistra che numerosi esponenti del gruppo dirigente bersaniano, da Tocci a Cuperlo, auspicano da tempo. 

Peccato che le buone idee abbiano bisogno di gambe per camminare e di cervelli sufficientemente vispi per essere illuminate e messe a frutto. Se i Tocci e i Cuperlo non capiscono che il campo largo della sinistra potrà nascere solo archiviando l’esperienza del PD e guardando alla parte sana e maggioritaria del M5S, finiranno con l’essere inglobati nel Forza Italicum, pedine tristi di una macchina di potere stritolante che, al termine di questa legislatura, li getterà via, trattandoli alla stregua di oggetti vecchi ed inutili da rottamare.

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