Obama: cosa resterà di una leadership

Sette anni fa, esattamente il 20 gennaio 2009, assistevamo al bellissimo discorso di insediamento di Barack Obama a Capitol Hill, a pochi passi dalla casa Bianca

ROMA – Rivolgendosi ai musulmani, ad esempio, asserì: “Al mondo islamico diciamo di voler cercare una nuova via di progresso, basato sull’interesse comune e sul reciproco rispetto. A quei dirigenti nel mondo che cercano di seminare la discordia, o di scaricare sull’Occidente la colpa dei mali delle loro società, diciamo: sappiate che il vostro popolo vi giudicherà in base a ciò che siete in grado di costruire, non di distruggere. A coloro che si aggrappano al potere grazie alla corruzione, all’inganno, alla repressione del dissenso, diciamo: sappiate che siete dalla parte sbagliata della Storia; ma che siamo disposti a tendere la mano se sarete disposti a sciogliere il pugno”. Parole memorabili, prologo dei concetti esposti pochi mesi dopo presso l’Università del Cairo, in un discorso passato sulla storia in quanto gli valse l’assegnazione del premio Nobel per la Pace. 

All’America volle inviare un messaggio di armonia e di speranza, di unione e di fratellanza, mentre sullo sfondo scorrevano le ultime, fastidiose immagini di Bush e di Cheney, ossia degli artefici delle guerre in Afghanistan e in Iraq, dei responsabili della guerra civile a bassa intensità che per otto anni ha sconvolto gli Stati Uniti, di una politica ambientale disastrosa, di un unilateralismo che ha indotto il mondo a guardare oltreoceano con preoccupazione e scetticismo e di autentiche barbarie quali il carcere di Guantanamo e le “extraordinary rendition” a danno di soggetti accusati di connessioni con il terrorismo come, per esempio, Abu Omar, imam rapito a Milano il 17 febbraio 2003 e tradotto in Egitto, suo paese natale, dove sembra che abbia subito torture e sevizie.


Senza dimenticare l’orrore di Abu Ghraib e dei soldati che si facevano fotografare accanto ai prigionieri ammassati a piramide o denudati in pose sconce: una vergogna che costò all’America il discredito mondiale e segnò l’inizio del declino dell’esperienza Bush, ricordata dalla maggior parte degli osservatori internazionali come una delle peggiori presidenze dell’ultimo secolo.
Obama prese un Paese sfiancato, in preda a una crisi economica senza precedenti, la più grave dal crollo di Wall Street nel ’29, con un livello di disoccupazione e tensione interna allarmante, ed è riuscito nell’impresa di abbattere il tasso di disoccupazione, favorire una crescita che in Europa non riescono a eguagliare neanche i paesi più virtuosi e restituire alla sua comunità un’immagine aperta e dialogante. Inoltre, si è rivelato capace di discutere e di confrontarsi con la complessità del nostro tempo, di accettare l’esistenza di un mondo multipolare e, di fatto, sia pur senza dichiararlo espressamente, di fare i conti senza paura e senza infingimenti con la perdita di centralità di una nazione da sempre abituata ad essere il faro dell’umanità.

In poche parole, ha saputo essere un uomo del suo tempo: un occidentale moderno, apprezzato in tutti i continenti, convinto del valore intrinseco del multiculturalismo e della società multietnica e in grado di sfidare il populismo razzista dell’ala più conservatrice dei repubblicani con atti dal fortissimo valore simbolico e concreto. Ha reso cittadini americani a tutti gli effetti i cinque milioni di messicani entrati illegalmente negli Stati Uniti e ha vinto il braccio di ferro con gli amici e i sostenitori di Netanyahu e di un altro storico alleato americano come l’Arabia Saudita; si è aperto concretamente all’Iran, rompendo un muro di odio reciproco che durava ormai da quasi quarant’anni e favorendo un riavvicinamento che ha portato alla storica conclusione dell’embargo nel luglio scorso, e ha combattuto, nella fase finale della sua presidenza, contro quella barbarie indicibile che è la diffusione capillare delle armi in un Paese nel quale è possibile recarsi nel supermercato sotto casa e acquistare un fucile o una mitragliatrice.

Ha cercato, insomma, di modificare almeno in parte la mentalità americana, valorizzandone i punti di forza e contrastandone i limiti, le chiusure e le contraddizioni, immettendo nel dibattito pubblico la sua cultura da giurista di Harvard e spazzando via l’immagine muscolare e francamente caricaturale e volgarmente inutile del predecessore.

Ricordo che nell’autunno del 2008 la scrittrice, premio Nobel per la Letteratura, Toni Morrison disse che lo avrebbe sostenuto perché è un poeta: non sappiamo se sia un poeta né quali rapporti abbia con questa nobile arte; ciò che sappiamo per certo è che si tratta di un galantuomo che ha restituito dignità e profondità innanzitutto alle parole e, di conseguenza, alle azioni, alla visione politica, a quello sguardo lontano che ha caratterizzato le migliori presidenze statunitensi e che era andata via via smarrendosi nell’ultimo trentennio. 

Infine, e non è certo cosa da poco, ha mandato finalmente in soffitta alcuni dogmi del liberismo reaganiano, salvando la Chrysler e aiutando l’economia a rilanciarsi e le imprese a creare posti di lavoro, aiutato in questo dalla saggezza sia di Ben Bernanke che di Janet Yellen, cui è toccato in sorte di essere governatori della Federal Reserve nel momento peggiore della vicenda americana dal dopoguerra e che passeranno alla storia come coloro che, sterilizzando i tassi d’interesse, hanno anteposto gli interessi dell’economia reale a quelli degli speculatori finanziari.

Alcuni analisti rimproverano a Obama di essere stato troppo debole e incerto in politica estera, ad esempio non intervenendo contro Assad quando si sospettava che avesse usato armi chimiche contro gli oppositori: di sicuro, almeno in quell’ambito, non ha esercitato fino in fondo la propria leadership ma, con altrettanta certezza, gli va detto di aver compreso fin da subito che quella leadership, sostanzialmente, non ce l’aveva più, ponendo gli Stati Uniti nel nuovo contesto di attore di primo piano in un quadro internazionale che vede protagoniste anche Cina, Russia, India e le potenze emergenti del G20.

Ha attraversato il cambiamento e lo ha saputo incanalare nella giusta direzione; ha vinto le elezioni che bisognava vincere e perso le altre, come era normale e fisiologico che fosse; ha approfittato a piene mani del regresso degli avversari repubblicani, ormai stretti fra un Trump, un Cruz e un Rubio, e si appresta a passare il testimone a Hillary Clinton e, ci auguriamo, al senatore del Vermont Bernie Sanders, il quale sta conducendo con straordinaria dignità e intelligenza la campagna elettorale per le primarie, definendo un profilo identitario chiaro e accattivante agli occhi dei ceti sociali che non si sentono rassicurati dalla linea centrista e terzaviista della dinastia Clinton.
Lincoln, presidente cui Obama si è ispirato fin dalla prima campagna elettorale, arrivando a giurare sulla sua Bibbia, diceva che non si può ingannare tutto il mondo per sempre. Il primo presidente afroamericano della storia degli Stati Uniti non ha certo risolto la piaga del razzismo e delle discriminazioni legate al colore della pelle, atavico limite della democrazia americana al pari della pena di morte, ma quanto meno si è speso in prima persona per contrastarle e, soprattutto, è stato ben attento a suscitare speranza senza ingannare né illudere nessuno.

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