Nessuno ha vinto, nessuno ha perso ma uno sconfitto c’è: il Partito della Nazione

ROMA – Per un’analisi compiuta bisognerà attendere l’esito dei ballottaggi e vedere se alla giovane Chiara Appendino riuscirà l’impresa di mandare a casa un politico navigato come Piero Fassino: in quel caso, si potrebbe parlare davvero di un trionfo del M5S, con contraccolpi notevoli per il governo. 

Per il momento è opportuno andare cauti e affidarsi a un sovrappiù di prudenza, trattandosi di una tornata elettorale dall’esito più che mai incerto e dai contenuti inediti. 

Inutile fare confronti con il 2011: da allora è cambiato il mondo e il panorama politico italiano non è più minimamente comparabile con quello di cinque anni fa. Cinque anni, solo cinque anni ma pare una vita, fra larghe intese, picco della crisi, scomparsa delle identità storiche e dei partiti tradizionali, trionfo della politica e della società liquida e ascesa della compagine che meglio riesce a interpretare questi nuovi scenari. Né destra né sinistra, un tutto indistinto, confusionario, caotico eppure capace di farsi interprete di quelle istanze progressiste che la sinistra della Terza via, in Italia come negli altri paesi in cui non ha ancora capito che il blairismo è un pessimo modello, oltretutto oramai anacronistico, non solo non è più in grado di comprendere ma che purtroppo, da anni, si ostina pervicacemente a calpestare.

Non ha vinto nessuno ma uno sconfitto, di sicuro, c’è ed è Renzi e la sua prospettiva del Partito della Nazione. Malissimo a Napoli, disastroso a Cosenza, fuori dai ballottaggi e semplicemente distrutto, tanto che lo stesso premier ha dovuto prenderne atto, annunciando il commissariamento e, di fatto, l’azzeramento di un partito che nel capoluogo campano, e non solo lì, è già all’anno zero.

Nella conferenza stampa post-voto, tuttavia, bisogna prendere atto di un dato inoppugnabile: questa nuova classe dirigente del PD è assai peggiore di quella, forse obsoleta ma comunque dotata di un minimo di senso dello Stato e delle istituzioni, che l’ha preceduta. Spiace dirlo, ma ascoltando Renzi e alcuni suoi epigoni ci si domanda se abbiano mai approfondito una qualche questione, se siano mai andati oltre la superficie dei singoli argomenti, se possiedano quel minimo di onestà intellettuale che induce a fermarsi e a cambiare strada quando il percorso imboccato è palesemente sbagliato o se la loro formazione politica si sia affinata unicamente davanti al “Drive In” e nel corso di qualche partita alla play station, non avendo il senso del limite, della misura e nemmeno quel sano gusto della competizione leale che dovrebbe indurre sempre e comunque a un po’ di sana autocritica, in quanto, specie in una fase delicata e controversa della vita politica nazionale come quella che stiamo attraversando, la descrizione di cieli azzurri e mirabilie continue non solo non funziona ma risulta altamente fastidiosa alle orecchie di quanti stanno soffrendo sotto i colpi di una crisi devastante e della quale non si vede la fine.

E spiace dirlo, ma anche chi ha chiamato Renzi a Palazzo Chigi per fermare i 5 Stelle, lo stesso che nell’81 preferì, di fatto, Craxi a Berlinguer, dovrebbe riflettere sulla miopia della propria analisi e sugli errori che questa ha comportato, in quanto l’ascesa del Rottamatore, al pari delle larghe intese “sine die” imposte a partire dal 2011, non ha fatto altro che indebolire il quadro politico e istituzionale del Paese, fino a condurlo all’annientamento, alla distruzione e alla totale perdita di credibilità: uno scenario barbaro del quale ha approfittato la sola forza che, coraggiosamente e con un certo orgoglio, si è sempre tenuta fuori da questi giochi al ribasso, privi di prospettiva e di orizzonte.

Ciò detto, però, anche il M5S deve stare attento e stilare un catalogo di errori da non commettere per nessun motivo al mondo.

Innanzitutto, i nostri amici pentastellati devono meditare su un aspetto non secondario: a Milano (casa Casaleggio jr.), Napoli (casa Direttorio, eccetto Di Battista) e Bologna (casa Bugani, fedelissimo di Casaleggio padre e figlio e membro dello staff di Rousseau) il M5S va male o addirittura affonda, con percentuali di gran lunga al di sotto della media nazionale e, soprattutto, non in grado di tenerli nemmeno per un un istante nella partita del ballottaggio. Se a ciò aggiungiamo che la vera forza della pur soprendente Raggi, a Roma, sono stati i fallimenti e i disastri tanto della destra quanto della sedicente sinistra, emerge con chiarezza che l’unico, vero successo di questa compagine è quello di Torino, dove una progressista olivettiana, intrisa di idee gobettiane proprie di una sinistra liberale e azionista, sia pur non dichiarata ufficialmente, è andata oltre le aspettative, tenendo testa a un Fassino in affanno e costretto a farsi appoggiare da una sorta di Partito della Nazione in embrione che lo ha portato al divorzio sia con la sinistra storica incarnata da Airaudo sia con le richieste di uguaglianza, giustizia sociale, diritti e benessere economico proprie di quelle periferie che il sindaco uscente ha oggettivamente sottovalutato, al pari della loro rabbia, del loro sconforto e del loro desiderio di riscossa. Va dato atto a Fassino di averlo, di fatto, ammesso ma il rischio, anche se dovesse vincere al ballottaggio, è che sia troppo tardi e che questa frattura con alcune componenti storiche del proprio mondo di riferimento sia destinata a pesare nel presente e, ancora di più, in futuro.

Il modello dei pentastellati, dunque, al netto del risultato del prossimo 19 giugno, dovrebbe diventare quello della Appendino, molto in sintonia, se ci pensate, con la visione ampia, pragmatica e sensata del reietto per eccellenza: quel Pizzarotti che dovrebbero ben guardarsi dall’espellere e al quale dovrebbero, al contrario, affidare il ruolo importantissimo di coordinare le varie esperienze amministrative e di costruire una sorta di via stellina al governo che dia a milioni di elettori indecisi e delusi l’idea che quel movimento, al di là della protesta, sia affidabile anche in un’ottica di costruzione e di alternativa al renzismo declinante.

Ricordo ancora quando nel 2014 scrissi, a commento della clamorosa affermazione renziana, che quel risultato sarebbe diventato stabile solo se il premier avesse accantonato la sua natura da schiacciasassi e indossato i panni dello statista dialogante, puntando a unire anziché a dividere, a ricucire anziché a creare nuovi strappi, a valorizzare quanto c’era, e c’è tuttora, di buono al di fuori del suo universo anziché allontanarlo con disprezzo; ha fatto l’esatto opposto e oggi ne paga le conseguenze. 

Lo stesso vale per i 5 Stelle: il senso del limite, della misura, della dialettica democratica interna e una sana crescita, basata sull’apertura e sull’accantonamento di ogni forma di eccesso, sono imprescindibili se questa compagine vuole davvero conquistarsi un ruolo di primo piano nel contesto nazionale; proseguendo lungo la via delle espulsioni e del duropurismo fine a se stesso, invece, l’unico risultato possibile sarà la ricomposizione del sistema e il rapido esaurirsi della linea di credito che i cittadini esausti, soprattutto nella capitale, hanno concesso loro. Occhio, perché le delusioni affiorano assai più rapidamente delle speranze. 

Quanto alla sinistra, va detto subito, a scanso di equivoci, che è riuscita a brillare e a combinare una catastrofe al tempo stesso. Ha brillato dove ha recuperato la propria anima, presentandosi con un abito movimentista, sbarazzino, rinnovato e da combattimento come a Napoli, con lo zapatismo in salsa vesuviana di De Magistris, e a Bologna, con la freschezza e la competenza del giovane professor Martelloni; è andata male dove si è divisa, privata di un’identità autonoma e riconoscibile e trasformata, in parte, in una lista civetta del PD come a Milano, e purtroppo a Torino, dove ha indossato le vesti della mera testimonianza, non riuscendo a pronunciare parole come comunità e progresso che, invece, sono state magistralmente incarnate dalla candidata atipica del M5S.

Che fare, adesso? Leggo da più parti che Renzi sarebbe combattuto tra proseguire lungo la via perdente del Partito della Nazione e provare a ricucire a sinistra: quest’ultima ipotesi non è plausibile, in quanto Renzi è il Partito della Nazione, è l’alleanza innaturale e deleteria con Alfano e Verdini, è la personalizzazione plebiscitaria del referendum ed è a cavallo di una tigre dalla quale non può scendere, salvo essere mandato a casa dai suoi stessi pasdaran; pertanto, ogni prospettiva di sinistra ulivista, per quanto sacrosanta, deve essere rinviata a dopo la sua sconfitta al referendum d’autunno, altrimenti, incassati i voti, il nostro eroe tornerà in sella più forte di prima e proseguirà lungo il sentiero distruttivo che ha imboccato due anni fa. 

Oltretutto, sarà il caso di guardarsi negli occhi e di rendersi finalmente conto che con i retaggi del passato, le nostalgie novecentesche e un culto ideologico di stagioni irripetibili non si va da nessuna parte: oggi il modello da seguire deve essere Sanders, la nostra ideologia deve essere l’Europa, la sua costruzione e la sua affermazione come unione politica e federazione di stati, il nostro orizzonte deve essere quello di Syriza e Podemos, ossia forze di sinistra dotate di una buona cultura di governo e capaci di tenere insieme sia quella componente socialdemocratica pressoché eliminata dalle sinistre ufficiali, in nome dell’accettazione del liberismo e del dominio del mercato sui beni comuni, sia quella componente movimentista, civica e solidale con la quale la nostra sinistra ha divorziato da circa quarant’anni, con i brillanti risultati che sono sotto gli occhi di tutti.

Quanto al centrodestra, infine, premesso che di fatto non correva a Torino (dove Napoli ha ottenuto un risultato risibile) e che a Bologna e a Roma ha preferito celebrare il proprio congresso e la propria lotta interna per leadership, ampiamente vinta dal populismo lepenista del duo Salvini-Meloni, e posto che Napoli fa storia a sé e che al ballottaggio Lettieri perderà con le percentuali della volta scorsa, se non peggio, a Milano, invece, questa sgangherata coalizione ha dimostrato che, rendendosi credibile, esiste ancora ed è più che mai competitiva.

A Cagliari, infine, abbiamo avuto la dimostrazione che Bersani avrà avuto pure mille difetti ma una delle sue intuizioni non era sbagliata: un centrosinistra unito e degno di questo nome, con un candidato in grado di far sue e rappresentare adeguatamente anche le idee di chi vorrebbe una rottura netta con il paradigma socio-economico dominante, riduce all’ininfluenza un movimento che nasce, senza ombra di dubbio, dagli errori e dalle mancanze di una sinistra che per troppo tempo si e rifiutata di svolgere il proprio mestiere.

Un’ultima considerazione la merita l’astensione, la cui percentuale è stata sì molto elevata ma meno di quanto ci si aspettasse, a conferma che quando gli elettori hanno la percezione di contare ancora qualcosa e di poter esercitare un minimo di influenza sulle scelte dei governanti mettono da parte il risentimento e si recano alle urne per far sentire la propria voce. Una comunità democratica e un tessuto civile sfibrato si ricostruiscono partendo soprattutto da qui. Fra due settimane, il verdetto definitivo.

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