In fondo, “basta zercar”! Riflessioni sul libro di Cuperlo e sul futuro della sinistra

E se fosse proprio lui, Gianni Cuperlo da Trieste, il vero politico pop del nostro tempo?

Questo intellettuale biondo, a modo suo affascinante, coltissimo, parlamentare del PD forse ancora per poco, avendo annunciato nell’ultima Direzione del partito che, in caso di mancata modifica della legge elettorale, si vedrà costretto a votare NO al referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre e, per questo, rassegnerà le dimissioni dalla Camera, questo galantuomo da Parlamento di Vienna è uno dei pochi esponenti politici dai quali, personalmente, per utilizzare un’espressione tipica del dibattito americano, “acquisterei un’auto usata”.

Non a caso, ho letto con piacere un suo libro dal titolo in triestino: “Basta zercar”, ispirato dalla frase che gli aveva detto tanti anni prima un umile militante della sua terra e che per Gianni ha segnato la vita e il destino, essendo uno di quelli per cui la politica, evidentemente, non è una professione ma una ragione sociale, una scelta totale, una missione civile alla quale votarsi e per la quale spendere ogni stilla di energia.

“<>, mi disse, <>. Fu una folgorazione e mi iscrissi al PCI”. 

Ci vorrebbe Claudio Magris per immaginare una scena del genere, per ricostruire le atmosfere della Trieste di quegli anni, per affrescare il volto di quell’operaio, probabilmente segnato dalla fatica, scavato dalle rughe e con le dita callose, che si avvicina a un bel ragazzo ancora adolescente e lo prende idealmente per mano, mostrandogli con la semplicità e la saggezza popolare oggi perduta un orizzonte che coincide con il senso di comunità e che, a sua volta, indica dei valori. 

Perché quello di Cuperlo non è affatto un libro polemico, la parola Renzi non compare nemmeno una volta, trattandosi peraltro di un saggio scritto diversi anni fa, mentre si parla a lungo dei traslochi e dei cambi di sigla che hanno avuto i partiti della sinistra nell’ultimo ventennio, finendo con lo smarrire proprio quell’identità e quel senso di comunità che ha prodotto il vuoto dal quale è scaturito il declino attuale. 

Dalla sconfitta nel Nord industriale e produttivo ai cedimenti alla Lega sul terreno del messaggio, dell’azione e persino delle logiche securitarie e di chiusura che hanno segnato il ventennio che stiamo faticosamente provando a lasciarci alle spalle, fra ronde padane e rese culturali, dolorose sconfitte, riforme sbagliate come quella del Titolo V, che oggi tutti disconoscono, e, quel che è peggio, l’incapacità di presentarsi davanti a una moltitudine di cittadini, circa venti milioni di persone, e spiegare loro cosa si voglia e quali siano le proprie proposte per il futuro.

In poche parole, e qui sta la denuncia straziante di Gianni, la migliore autocritica che abbia mai letto da un protagonista delle decisioni dell’ultimo trentennio sul degrado progressivo di una sinistra che, nel corso di tre decenni, ha riempito più scatoloni dei poveri dipendenti della Lehman Brothers, dato vita a vari traslochi, cambiato forme e modalità espressive, rinnovato in parte la propria classe dirigente, trasformato le sezioni in circoli, cancellato la parola sinistra dal proprio nome, e di fatto, da quando c’è l’attuale segretario, anche dalla propria visione del mondo, e smarrito purtroppo quella verace semplicità che indusse un uomo di cui non sappiamo nulla a tirare dentro un ragazzo destinato a diventare un dirigente e a trasformarsi in uno dei politici più stimati e rispettati del nostro Paese. 

Sta qui la forza delle radici popolari, quell’immenso patrimonio sentimentale, quella ricchezza perduta e invece da ritrovare al più presto che tocca le corde dell’anima e dà un senso all’agire politico e a molte altre cose, oltre a innervare una riflessione ad ampio spettro sui tanti errori e le poche conquiste di un campo che, dopo la morte di Berlinguer e una svolta necessaria ma portata avanti in maniera troppo frettolosa, si è smarrito, andando progressivamente incontro alla più amara delle sconfitte, ossia quella di ricalcare pedissequamente le proposte dei propri avversari, finanche nel linguaggio e nel modo di presentarle. 

E non è un dramma solo italiano: è tutta l’Europa che vede un socialismo irriconoscibile e in affanno, bocciato dagli elettori e costretto a rifugiarsi in grandi coalizioni innaturali e deleterie per le sorti dei ceti sociali più deboli che, in teoria, dovrebbe rappresentare. 

E così, mentre siamo immersi in un dibattito referendario che avrebbe potuto essere proficuo e costruttivo e si è trasformato, al contrario, in un’invereconda barbarie, mentre va in scena questo rodeo di personalismi in conflitto, di rancori esibiti, di odi dissotterrati, di reciproche volgarità e di scontri che, comunque vada a finire, sortiranno l’effetto di avere, dal prossimo 5 dicembre, istituzioni più fragili e un Paese diviso a metà, in questo contesto più triste di un cielo triestino nel cuore dell’inverno, ho avuto la fortuna di immergermi nella confortante lettura di un intellettuale, prim’ancora che di un politico, capace di spaziare da Levi alla tragedia del Ruanda, senza dimenticare le citazioni di Pintor e Vittorio Foa e una sapida analisi che pone al centro la storia dell’ultimo trentennio e la ripercorre senza sconti, senza nascondere le responsabilità della propria parte politica nel degrado del Paese e senza affidarsi neanche per un istante alla mera denigrazione o colpevolizzazione dell’avversario, anche perché già qualche anno fa era chiaro che una parte degli avversari fosse ormai al nostro interno, per via del caos generato da una perdita di valori e da una confusione generalizzata che ha trasformato la destra e la sinistra in mere parole, svuotandole dei significati e di quella tensione etica e ideale senza la quale la politica smarrisce il proprio senso, la propria bellezza e la propria ragione di esistere. 

Straordinario, ad esempio, il racconto della dignità del lavoro fornito da Primo Levi parlando del contesto devastante del lager di Auschwitz, quando era la dignità stessa dell’uomo ad essere costantemente annientata. Gianni ne riporta un passaggio che induce a pensare: “Il bisogno del “lavoro ben fatto” è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i tedeschi, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale”. 

Nella vita di ciascuno di noi c’è un uomo o una donna semplice, che ha avuto la sfortuna di poter studiare poco ma l’intelligenza di formarsi autonomamente una cultura, che con la propria esperienza sul campo ci ha condotto a osservare il mondo con altri occhi, e questo credo che sia il senso della politica e della vita stessa, ciò per cui ci alziamo la mattina e ci chiediamo cosa possiamo fare per gli altri, ciò che faceva sentire uno studente e un insegnante, un metalmeccanico e un professore universitario parte della stessa famiglia. È ciò che si è perso ed è la sconfitta più atroce, assai peggio di un congresso o di un’elezione andata male, perché ci vorranno tanti anni per ricostruire questi legami, queste speranze, queste connessioni sentimentali, quest’umiltà collettiva e questo desiderio di guardare il mondo da un’altra prospettiva, che poi è la radice di quella molla interiore chiamata curiosità senza la quale saremmo rimasti fermi all’età delle caverne. 

Cosa chiedeva, in fondo, John Kennedy il 14 luglio del 1960 a Los Angeles se non di mettersi tutti insieme in gioco per costruire un’America migliore? Non prometteva orizzonti di gloria irrealizzabili: proponeva di costruire insieme un Paese più giusto. Gianni riporta il suo discorso di accettazione della candidatura alla convention democratica in appendice al volume e a me tornano in mente, va a capire perché, alcuni discorsi che ho ascoltato in questi giorni da parte del Presidente del Consiglio e dei suoi epigoni. Non intendo sollevare polemiche: mi basta dire che lo iato tra quella visione e questo continuo promettere è evidente e rende l’idea del contesto epocale nel quale siamo immersi, della tragicità del nostro tempo e della mancanza di fiducia e di speranza che caratterizza una stagione segnata dallo sconforto. E proprio in quel momento, sempre per associazione di idee, forse perché desideroso di coltivare quell’ingraiana arte del dubbio e quell’irrequietezza positiva che ci induce a cercare, a esplorare e a camminare senza requie, a immaginare sempre un nuovo traguardo e a tentare di comprendere le ragioni dell’altro anche quando ci appaiono lontane anni luce dalla nostra sensibilità, proprio in quel momento ho sognato di andare a incontrare quella vasta parte del nostro mondo che in questi anni ci ha voltato le spalle, di tendere la mano a quei ragazzi che hanno scelto le 5 Stelle di Grillo ma un tempo votavano a sinistra, di confrontarmi con quella galassia movimentista che va sì indirizzata ma anche ascoltata con passione perché spesso esprime le ragioni che noi non abbiamo il coraggio di dichiarare e di ricostruire una comunità politica e di pensiero. E mi sono detto che sarebbe ancora più bello farlo tutti insieme, come se quel libro mi avesse preso per mano e spalancato improvvisamente un orizzonte. 

Non dovrebbe essere poi tanto difficile: in fondo, caro Gianni, come asserì quell’operaio triestino che aveva molto da insegnare, “basta zercar!”.

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