Prospettive e orizzonti dei Democratici e Progressisti

Si riparte dall’articolo 1 della Costituzione, quindi dal lavoro e dalla sovranità popolare, e già questa scelta, l’idea di utilizzare un così esplicito riferimento costituzionale come simbolo del nuovo soggetto politico, nato dalla duplice scissione del PD e di Sinistra Italiana, è un fatto molto positivo.

Si riparte, poi, da due gruppi parlamentari autonomi, con Francesco Laforgia a presiedere quello della Camera, al fine di costituire un ponte nei confronti del Campo Progressista di Pisapia, e Maria Cecilia Guerra alla guida di quello del Senato, potendo rivendicare la sua esperienza di governo e la sua straordinaria competenza sui temi del lavoro e del welfare.

Stavolta, pertanto, questa almeno è l’impressione di chi ha un minimo di dimestichezza con i delicati e sempre tesi equilibri interni della sinistra, si fa sul serio, in quanto il renzismo non ha semplicemente spostato a destra il PD; al contrario, lo ha snaturato e trasformato in un soggetto politico amorfo, di fatto né di destra né di sinistra ma con una spiccata propensione a ricalcare le politiche berlusconiane dell’ultimo ventennio, possibilmente peggiorandole un po’, al punto da apparire oggi, agli occhi di milioni di militanti ed elettori spaesati, un crogiolo indistinto di anime senza una meta, senza un orizzonte, senza una prospettiva, con otto giovani su dieci contro, dunque senza un futuro, e con una classe dirigente desiderosa unicamente di conservare e accrescere il proprio potere. 

Un partito in queste condizioni, oggettivamente, non va da nessuna parte, da qui la scissione e il sacrosanto rifiuto della ex minoranza di partecipare ad un congresso dall’esito scontato e destinato, inevitabilmente, a trasformarsi in una conta plebiscitaria a favore di Renzi, determinando, di fatto, la definitiva e inesorabile mutazione genetica del PD in un comitato elettorale al servizio del leader, ispirandosi al modello indicato da Emmanuel Macron in Francia, con la differenza che il nostro eroe transalpino, quanto meno, ha avuto la dignità di mettersi in proprio e di sfidare apertamente il partito grazie al quale era diventato ministro dell’Economia a causa di uno degli innumerevoli errori di Hollande.

Ora, poiché sia Bersani che Speranza che lo stesso D’Alema sanno benissimo come andrà a finire il congresso del PD e poiché sanno benissimo che Orlando non ha alcuna possibilità di vincere, se fossi in loro, compirei un grande discorso di verità. E la verità è questa: il PD non è salvabile, se avessero avuto una percezione diversa si sarebbero candidati alla sua guida per cambiarlo radicalmente dall’interno e riportarlo fra la sua gente e nel suo schieramento; tutto ciò sarebbe stato possibile unicamente in caso di un congresso vero, di una presa d’atto del fallimento e dell’insostenibilità del renzismo e di una volontà collettiva di cospargersi il capo di cenere ed andare oltre. Non è successo: quelle che si prospettano sono, come detto, primarie plebiscitarie con un vincitore già annunciato, uno sfidante candidatosi controvoglia dopo aver condiviso per tre anni tutte le politiche renziane, dunque, fatto salvo il rispetto per la persona, per nulla credibile agli occhi di coloro che hanno abbandonato il PD proprio in contrasto con quelle politiche, e un simpatico personaggio pugliese che mescola alla perfezione grillismo e renzismo, politica e anti-politica e le cui proposte sono tanto demagogiche, a tratti delle vere e proprie fanfaronate come quella dei politici a costo zero, quanto irrealizzabili e formulate solo per acquisire visibilità a livello nazionale.

Il PD non è salvabile: mi sono illuso io stesso, per qualche giorno, pur essendo uno scissionista di lungo corso, ma ho capito in breve tempo che ogni speranza di ricostruire la nostra casa comune fosse ormai vana e che fosse assolutamente necessario dar vita, alla svelta, ad un nuovo soggetto politico autonomo.

Aggiungo che la scissione è stata tardiva, che secondo me Speranza si sarebbe dovuto dimettere da capogruppo sul Jobs Act, senza prolungare l’agonia di una convivenza insostenibile e di un ruolo che gli faceva perdere, ogni giorno di più, credibilità e prestigio, e che, essendo Renzi la negazione stessa della Ditta bersaniana, votare contro i suoi provvedimenti, peraltro imposti con rara arroganza e protervia, sarebbe stato doveroso, così come sarebbe stato doveroso abbandonare il partito almeno due anni prima rispetto a quando ciò è avvenuto. E dico anche che adesso è bene dire la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità in merito al governo Gentiloni, ossia ad un Renzi bis senza Renzi, in alcuni nomi addirittura peggiore e che, sostanzialmente, sta facendo poco o nulla. Perché sostenerlo, allora, e in che modo? L’ideale, anche per non mettere in difficoltà l’ampia pattuglia di parlamentari provenienti da Sinistra Italiana che fino a poco fa votavano contro l’esecutivo, sarebbe affidarsi alla tattica escogitata dai vertici del PCI nel ’76, ossia la non sfiducia, chiedendo espressamente all’esecutivo di ridurre al minimo i voti di fiducia e di iniziare a rispettare il Parlamento, oltre a vincolare il proprio sostegno ad una seria revisione della normativa sui voucher e ad alcune nette modifiche della Buona scuola: due norme pessime che, nella prossima legislatura, andranno smantellate da cima a fondo, sperando che vi siano i numeri per farlo. 

Perché vi siano i numeri, perché la sinistra torni ad avere un senso ed un credito popolare, tuttavia, è necessario che parli chiaro, rompa definitivamente i ponti con un soggetto politico rivelatosi, complessivamente, un fallimento di proporzioni epocali e abbia il coraggio di tralasciare gli inservibili vertici del M5S e di cominciare a collaborare, invece, con le tante belle risorse presenti all’interno di quella compagine, nata in concomitanza con il PD e frutto degli innumerevoli errori compiuti dalla sinistra negli ultimi vent’anni. 

Il materiale umano c’è, le risorse culturali pure e l’apertura a Pisapia è un atto dovuto, a patto che anche l’ex sindaco di Milano chiuda porte e finestre a Renzi e al renzismo e si dichiari radicalmente alternativo ad esso, in quanto di un’ennesima stampella dell’ex sindaco di Firenze non sapremmo proprio cosa farcene. 

Infine, sarà bene prepararsi per tempo ad ogni eventualità: non so se Renzi abbia definitivamente accantonato il desiderio di votare a giugno ma di sicuro, una volta rilegittimatosi con le primarie-plebiscito del prossimo 30 aprile, farà il possibile, l’impossibile e oltre pur di andare alle urne prima della manovra lacrime e sangue d’autunno, cosciente del fatto che dopo un salasso del genere, che oltretutto metterebbe a nudo tutte le sue mance, i suoi bonus e i suoi sostanziali fallimenti, di ciò che resta del Partito Democratico non rimarrebbe neanche il simbolo.

Coraggio, fiducia in se stessi, tenacia, dignità, caparbietà, battaglie politiche riconoscibili, posizioni nette e senza alcuna ambiguità, un sostegno iper-critico a Gentiloni, giusto per non consentire a Renzi di correre alle urne scaricando su di noi le responsabilità del suo populismo, e quel minimo di irriverenza indispensabile per sopravvivere in una stagione nella quale sono saltati tutti gli schemi e si pone l’assoluta necessità di rifondare la sinistra su nuove basi e nuove idealità: con meno di questo, mi spiace, ma non si andrebbe da nessuna parte. Con tutti questi elementi, al contrario, pur rendendo omaggio alla figura storica e degna di stima di Rino Formica, che compie novant’anni, potremmo smentire la sua visione, non del tutto sbagliata ma sicuramente molto cinica, della politica intesa come un misto di “sangue e merda”. Non è solo questo e merita senz’altro uno slancio ideale.

Condividi sui social

Articoli correlati