Il tramonto dei leader solitari

A mente fredda, accantonando i commenti baldanzosi, protervi e privi di senso che hanno caratterizzato, come sempre, la notte del voto, possiamo compiere alcune riflessioni in merito a queste Amministrative 2017

Cominciamo col dire che, a differenza di quelle dell’anno scorso, il test nazionale non c’era, a meno che non si voglia conferire un valore nazionale a graziose città che, tuttavia, sommano un numero di abitanti pari ad un quartiere di Roma. Fatta salva Palermo, dove ormai Leoluca Orlando fa il paio con il Monte Pellegrino, e fatta salva Genova, dove era abbastanza evidente che la destra unita in salsa totiana e a trazione fondamentalmente leghista, sarebbe andata piuttosto bene, altrove bisogna valutare caso per caso, senza tweet irridenti e sparate tanto arroganti quanto effimere e del tutto fuori luogo. 

Partiamo dai grandi sconfitti di questa tornata elettorale, ossia dal M5S. Il voto amministrativo conferma due cose che già si sapevano: Di Maio, responsabile enti locali del Movimento, non è all’altezza a nessun livello, dunque farebbe meglio ad andarsi a prendere la laurea e a lasciar perdere la politica, e i settarismi non pagano mai, come confermano il buon risultato del “reprobo” Pizzarotti a Parma e, per l’appunto, il tracollo Genovese, dove i 5 Stelle sono stati capaci di dare il peggio di sé. A Palermo Forello, inventore della pur meritevole associazione Addio Pizzo, è andato peggio di quanto non pensassi ma con Orlando non ci sarebbe stata storia a prescindere: il sindaco della rinascita e della buona amministrazione dopo Ciancimino avrà sempre un posto d’onore nel cuore dei palermitani. 

Sempre a proposito dei 5 Stelle, va poi posto all’attenzione un argomento trascurato dalla maggior parte dei commentatori: uno dei grandi freni alla loro ascesa sono le regole assurde che si sono dati. Quest’idea, nemica della buona politica, per cui non si possono fare più di due mandati né si può lasciare il proprio mandato da consigliere comunale per candidarsi in Parlamento ha indotto la parte migliore della classe dirigente grillina a saltare un turno per puntare direttamente a Montecitorio e a Palazzo Madama nonché ai rispettivi emolumenti. Sarà brutto a dirsi ma è così, e quando si pretende di fare politica senza accettarne le regole, e anche gli aspetti meno commendevoli ma, tutto sommato, umanamente comprensibili, non si va molto lontano. Speriamo che questo disastro gliel’abbia fatto capire. Purtroppo, ho i miei seri dubbi in proposito.

Il secondo personaggio che farebbe bene a riflettere, anziché intestarsi una vittoria in cui non ha alcun merito e tornare a parlare di elezioni anticipate (un chiodo fisso che ormai, oltre ad aver stufato, ha anche dimostrato di portare piuttosto male: vedasi alla voce May), è Matteo Renzi. 

L’anno scorso, a fare un passo di lato era stato Beppe Grillo, con il risultato di stravincere a Roma, vincere sorprendentemente a Torino e sbaragliare il PD in quasi tutti i ballottaggi. 

Quest’anno a non farsi né vedere né sentire è stato proprio Renzi, con il risultato che un centrosinistra dignitoso, modello Bersani-Pisapia, ha retto praticamente ovunque, anche se sembra destinato a perdere diversi ballottaggi in città in cui pure non ha combinato sfracelli. 

Se a ciò aggiungiamo che le uniche due città in cui l’anno scorso Renzi non mise bocca furono Bologna e Cagliari, con conseguenti vittorie di Merola e Zedda, il primo al ballottaggio, l’altro addirittura già al primo turno, e che a Milano Sala vinse più per merito di Pisapia che non del suo mentore, capiamo che questa magna leadership rignanese (dove peraltro la candidata renziana ha perso contro un ex PD) ormai ha fatto il suo tempo. Se qualcuno ancora gli vuole bene, cortesemente, glielo dica con fermezza, consigliandogli inoltre di far presente ai suoi che maramaldeggiare nei confronti dei grillini sconfitti, arrivando addirittura a definirli “il nulla”, è inelegante e controproducente, specie se si considera che sono stati dati per morti più volte di Berlusconi ma nei sondaggi nazionali sono ancora lì, fra il primo e il secondo posto, per giunta in un sistema che alle Politiche sarà, con ogni probabilità, proporzionale. 

Quanto al centrodestra, si è palesato l’ovvio: quando è unito, è piuttosto competitivo. 

Peccato che la Liguria faccia storia a sé e che in Veneto prevalga il modello Zaia: un esponente della vecchia Liga veneta, composta per lo più da democristiani in camicia verde, che non ha nulla a che spartire con le smanie lepeniste dell’attuale segretario del Carroccio.

In poche parole, anche se loro ovviamente lo negheranno con forza, questo primo turno delle Amministrative ci dice con chiarezza che sono al tramonto le tre leadership solitarie che hanno dominato il panorama politico nazionale negli ultimi anni: Renzi, che meno si fa vedere, meglio è, Di Maio, che ha fallito sia a Roma sulla legge elettorale sia sui territori con la débâcle di ieri, e Salvini, la cui pretesa di trasformare un soggetto territoriale in un partito nazionale è stata smentita dall’inesistenza di voti una volta superato il Po. 

Non solo: queste elezioni ci dicono nettamente che non si può pensare di convincere la gente a votarti se non hai un’anima né un’identità o se, peggio ancora, aspiri a snaturarti e a trasformarti nell’opposto di ciò per cui sei nato. Un M5S nato sui territori per prendersi cura di piccoli problemi locali, denunciando le malefatte e l’affarismo dei partiti tradizionali, non può funzionare se alla sua guida si mette un personaggio che si atteggia a Macron senza, peraltro, essere uscito dall’ENA. Così come il PD, nato per essere l’architrave del centrosinistra, difficilmente può funzionare se il suo segretario lo vuole condurre fra le braccia di Berlusconi e Verdini, espellendo progressivamente la sinistra. Infine la Lega, la quale ha un senso solo se torna ad essere una sorta di sindacato del Nord, visto che per i napoletani sarà sempre il partito degli slogan razzisti contro il Sud e che anche la vandeana francese sembra aver esaurito la propria spinta propulsiva. 

Mi dispiace, in conclusione, per l’ex sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini, vittima non tanto delle sue posizioni aperte ed inclusive in fatto di immigrazione quanto, probabilmente, della sua eccessiva vicinanza a Renzi e dell’essersi trasformata troppo in un personaggio mediatico, prestandosi alle campagne nazionali del proprio leader e smarrendo così una parte di quella genuinità che le aveva portato unanimi consensi nella prima parte della sua esperienza amministrativa. 

Quanto alla Raggi e alla Appendino, l’idea che nel resto d’Italia si sia votato sui disastri della prima e sull’infortunio della seconda la settimana scorsa può venire in mente solo a chi non prende l’autobus dai tempi in cui si andava con l’omnibus a cavalli. 

Tutto questo mentre diciamo addio ad Oscar Mammì, autore di una pessima legge sul sistema mediatico che, tuttavia, abbiamo rivalutato dopo aver letto la Gasparri e la recente riforma renziana, e mentre Macron ha ottenuto un risultato al primo turno delle Legislative che lo incorona praticamente imperatore di Francia. Essendo un uomo intelligente e sapendo gestire il potere, ha provveduto a far sapere che si toglierà subito la corona, ben cosciente del fatto che altrimenti la sua marcia trionfale potrebbe trasformarsi presto in un calvario.

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