Il museo Bernabò Brea di Lipari, uno dei più ricchi e meno conosciuti musei del Mediterraneo. Foto

In molte persone, la parola Eolie evoca istintivamente immagini di mare azzurro e spiagge incontaminate. Pochi, tra le migliaia di turisti che arrivano ogni anno, conoscono il museo di Lipari e le tante bellezze, archeologiche e artistiche, in esso contenute.

Il Museo Bernabò Brea è incastonato nello scrigno dell’antica cittadella fortificata di Lipari, frutto di una complessa stratificazione architettonica che rispecchia la lunghissima storia dell’arcipelago. I primi insediamenti risalgono infatti al Neolitico, circa 7000 anni fa, per proseguire con elementi greci, romani, bizantini, arabi, normanni, svevi, aragonesi e spagnoli.

Un autentico tesoro archeologico, giunto fino a noi grazie alla cenere vulcanica, che ha permesso una buona conservazione dei reperti, ma soprattutto per la passione e la testardaggine di Luigi Bernabò Brea e Madeleine Cavalier. 

Grandi figure dell’archeologia che dall’immediato dopoguerra effettuarono sistematiche campagne di scavo in tutto l’arcipelago, portando alla luce un enorme patrimonio di ritrovamenti e conoscenze, poi confluito nel museo, fondato nel 1958.

Nel 1999, anno della sua scomparsa, la struttura è stata doverosamente intitolata a Luigi Bernabò Brea, che oltre a crearlo e dirigerlo per moltissimi anni, lo ha arricchito, insieme all’indispensabile Madeleine Cavalier, con una costante attività di ricerca.

Per raccontare il museo e le sue meraviglie abbiamo chiesto la collaborazione dell’archeologa Maria Clara Martinelli, che di Bernabò Brea e della Cavalier è stata allieva e ne prosegue, con uguale passione, il difficile lavoro.

D: Cominciamo parlando di te. Non sei eoliana e nemmeno siciliana. Com’è iniziata la tua storia, d’amore, con il museo di Lipari?

R: Io sono nata a Bari e mi sono laureata in Lettere. Per gli archeologi, lavorare a Lipari è sempre stato motivo di enorme prestigio. Alla fine degli anni ’80, grazie a una borsa di studio, ho potuto effettuare un ciclo di studi presso il museo e mi sono innamorata, non solo del luogo, ma soprattutto delle persone che ci lavoravano, Luigi Bernabò Brea e Madeleine Cavalier. Loro, per me, sono stati dei veri maestri. Da lì sono venuti altri incarichi, fino al 2000, quando ho vinto il concorso come funzionaria dei Beni Culturali. Nella Sicilia degli anni ’90 c’era molto lavoro per noi archeologi. Ho effettuato ricerche a Lipari, Messina, Milazzo, un po’ in tutta la provincia. Se mi guardo indietro, sono passati già trent’anni, senza quasi me ne accorgessi.

Andrè Malraux diceva che “i musei sono i soli luoghi al mondo capaci di sfuggire alla morte”. Nell’era del virtuale, della comunicazione veloce, che cancella quella immediatamente precedente, quanto è difficile conservare e trasmettere memoria?

R: È molto difficile. Perché è necessario trasformare la comunicazione in racconto. Per lungo tempo, i musei sono stati luoghi prettamente scientifici. Dove poter ammirare e seguire un percorso cronologico. Adesso le persone devono essere accattivate, coinvolte, altrimenti si annoiano. La tecnologia può aiutare, ma fino a un certo punto, perché manca di immediatezza. Personalmente, credo che strumenti come le app scaricabili o i tavoli touch screen non bastino. Rischiano di diventare dei giochi, facendo così smarrire il quadro complessivo. Ci vuole anche un percorso di spiegazioni, pannelli, didascalie, per fornire i necessari approfondimenti.

D: Ricollegandomi a questo, Andy Warhol sosteneva che certi musei non hanno niente da invidiare ai grandi magazzini. Qual è l’errore da non fare, nel proporre una collezione? 

R: Infatti. L’errore spesso è nell’allestimento. Nel nostro museo, fin dagli anni ’50, si è scelto di dare visibilità alle cose più importanti, ai contesti. Dietro ogni reperto c’è una storia. Il ritrovamento di una tomba, di un villaggio. Quindi l’allestimento è proprio la cosa più importante. Non si può riempire una stanza di soli vasi o monete. Devi far capire l’importanza di certi oggetti.

D: Ci puoi descrivere il Museo di Lipari? Perché vale la pena visitarlo?

R: Il nostro museo è un unicum. Ci sono tanti musei bellissimi, nel meridione, che raccolgono reperti provenienti da contesti molto diversi. Le nostre collezioni, invece, derivano dagli scavi fatti in un’area specifica, che è quella delle isole Eolie. C’è quindi un legame fortissimo con il territorio e la sua storia. Le varie esposizioni sono in ordine cronologico, dal neolitico fino al medioevo. Con oggetti di straordinaria bellezza, quali ceramiche dipinte, monili e oggetti recuperati dai tanti naufragi in queste acque. Ci sono poi vasti settori dedicati alle scienze naturalistiche. Soprattutto alla vulcanologia, argomento principe qui alle Eolie. Basti pensare all’ossidiana che fu il motivo principale dell’arrivo delle comunità umane nelle Eolie.  Abbiamo anche una sezione di arte contemporanea, in quello che era il vecchio carcere, che ospita opere di numerosi artisti di grande rilevanza. Infine, c’è una sezione dedicata alla storia stessa del museo e degli scavi che ne hanno permesso la creazione. È un luogo in cui entrare a diretto contatto con la storia di queste splendide isole.

D: Quando ci siamo sentiti al telefono, per programmare l’intervista, lamentavi il fatto che molti turisti non lo conoscono. Cosa si può fare, in questo senso? 

R: Questo è un problema di comunicazione. Se da un lato il museo è molto noto in ambito scientifico, è invece meno conosciuto dalle persone comuni. Qui possono essere di grande aiuto le tecnologie. I turisti, anche se ne conoscono l’esistenza, pensano di trovare un piccolo museo. Poi, quando lo scoprono, rimangono affascinati dalla bellezza di questo luogo. 

D: Paradossalmente, con tutte le bellezze naturali e archeologiche che ospita, negli ultimi anni Lipari si sta orientando verso un turismo da movida serale, trascurando le infinite possibilità offerte dalla cultura. Il museo potrebbe fare qualcosa, per invertire questo processo?

R: Il museo potrebbe fare tanto, ma purtroppo non dimentichiamoci che è fatto soprattutto di persone. Ed è proprio il personale a mancare, dopo i tanti pensionamenti. C’è carenza soprattutto di figure specializzate, come l’addetto alla comunicazione. Della pagina Facebook me ne occupo io, per esempio, ma non sono certo, da archeologa, la persona più adatta. In questi anni abbiamo sempre cercato di fare, con tutti i nostri limiti.

D: ricordiamo le tante iniziative organizzate, comunque. Penso alla serata dedicata alla cucina dell’antica Roma, la scorsa estate, che ha attirato molto interesse.

R: Devo dire che negli ultimi anni abbiamo un direttore, l’architetto Rosario Vilardo, che è persona di grande sensibilità, ed è stato lui a volere questa come altre iniziative. Cerchiamo, ogni estate, di creare eventi che possano attrarre. Il problema è che siamo davvero pochi.

D: Lasciando stare i turisti, com’è il rapporto degli Eoliani con il loro museo? Perché questa sarebbe la loro storia, la loro memoria.

R: Potrebbe essere migliore. Le scuole vengono, però rimane un rapporto incostante, poco intenso. Diciamo che anche qui c’è da lavorare.

D: Forse è come chiedere a una madre qual è il figlio preferito, ma c’è un reperto a cui sei particolarmente legata? Magari per una storia dietro, che sarebbe bello ascoltare?

R: Si! C’è un reperto che ho avuto la fortuna di scoprire io, nel villaggio di Filo Braccio, a Filicudi, che risale all’età del Bronzo. Durante il lavaggio, mi sono accorta con grande emozione, che su un frammento ritrovato era presente una figura umana. A quel punto abbiamo iniziato a cercare gli altri pezzi e siamo riusciti a ricostruirlo in gran parte. Ne è risultato un vaso su cui sono raffigurate delle barche in mare e una figura, forse una divinità. È un oggetto di grande importanza, perché tra i pochissimi esempi, in quel periodo, di arte raffigurativa complessa. In questo momento è in prestito al Museo Nazionale di Napoli.

D: Immagino il patema d’animo. Ma quando torna, perché non telefona…

R: Esatto! Non vedo l’ora che torni.

D: Speriamo che possiate presto ricongiungervi anche voi, come tutti gli innamorati del mondo. Passando ad argomenti più prosaici, cosa ne pensi del nuovo DDL regionale 698-500? Che, per quanto mi pare di capire, toglie potere alle Soprintendenze per ridistribuirlo alla politica.

R: È una questione complicata. Credo che la tutela del nostro patrimonio archeologico debba essere fatta da chi sa davvero farla, ovvero le Soprintendenze. Un istituto pubblico che nasce proprio per questo e che, pur con tutti i suoi limiti, lavora abbastanza bene. Non la si può delegare ad altre istituzioni. Soprattutto ai comuni, che già sono sommersi di compiti e non hanno personale con specifiche competenze. 

D: Una domanda forse banale. Con l’attuale situazione, quali misure avete preso per evitare il rischio Covid? Possiamo tranquillizzare gli aspiranti visitatori?

R: C’è un piano di sicurezza, predisposto dal direttore. Abbiamo i distanziatori, mascherine, disinfettante. Il personale è protetto. Entrata e uscita sono diversificate. Grazie agli ampi spazi, possiamo ospitare contemporaneamente fino a una cinquantina di visitatori, scaglionati nelle diverse sale.

D: C’è una domanda che non ti ho fatto e che avresti desiderato ascoltare?

R: Quanto lavoro c’è dietro la cura di un museo. Per adesso sono l’unica archeologa del museo. Il visitatore che vede i reperti in vetrina, spesso non si rende conto di quanta fatica ci vuole. Studio, restauro, catalogo, inventario, documentazione fotografica. Un lavoro infinito che da anni, faccio praticamente da sola. Penso a tutti i restauri realizzati negli anni cinquanta e sessanta, che andranno rifatti, perché i collanti usati all’epoca, hanno una durata relativa.

D: Immagino ci siano sempre nuovi scavi in corso. Ce ne puoi parlare? Cosa possiamo aspettarci, di bello, nei prossimi anni?

R: Stiamo continuando gli scavi dei villaggi di Filicudi e quello di Stromboli, in collaborazione con l’università di Modena e l’Hunter College di New York. E abbiamo in progetto di riformulare diversi allestimenti. Tutte le vetrine degli ori, per esempio, provenienti dai corredi funebri di quasi tremila tombe di epoca greca e romana. Il museo è una struttura viva, che cambia negli anni. Le sorprese, per i visitatori, certo non mancheranno.

Il museo di Lipari è aperto nei giorni feriali dalle 9.00 alle 19.30. La domenica e i festivi dalle 9.00 alle 13.30. L’ingresso è gratuito per tutti ogni prima domenica del mese, il 10 marzo e sempre per gli insegnanti, i minori di 18 anni e le persone diversamente abili.

1 Cratere a calice a figure rosse dalla tomba 367 (360 a.C) raffigurante scena teatrale davanti a Dioniso

2 Maschera di giovane con corona

3 Anello della tomba 562 con danzatrice

4 Tazza con il racconto di un evento legato al mare proveniente da una capanna del villagio dell’età del Bronzo (1900 a.C) di Filo Braccio nell’Isola di Filicudi

5 Sala dell’archeologia subacquea con i carichi di anfore delle navi che solcavano il mare delle Eolie in età greca e romana

 

Condividi sui social

Articoli correlati

Università

Poesia

Note fuori le righe