Chinaglia e Ghirelli: quando lo sport era poesia

Un giorno, un destino comune e due storie completamente diverse. Dio solo sa quanto fossero lontani Giorgio Chinaglia e Antonio Ghirelli, scomparsi entrambi il 1° aprile di cinque anni fa e accomunati unicamente da questo dato non secondario, oltre che dalla passione per il calcio e dal fatto di esserne stati, sia pur in forme differenti, dei protagonisti di primo piano. 

Perché “Long John”, com’era soprannominato Chinaglia, era un personaggio strano, irriverente, spigoloso e negli ultimi anni anche coinvolto in vicende che non facevano onore alla sua parabola di uomo e di sportivo; un uomo tutto d’un pezzo, capace di dividere esattamente a metà lo spogliatoio della Lazio pistolera di Maestrelli e di mandare al diavolo un galantuomo come Valcareggi per via di una sostituzione durante una partita del Mondiale tedesco del ’74; un campione dalla classe cristallina, dalla potenza ineguagliabile, dal carisma riconosciuto da tutti e dotato di una tenacia che gli faceva onore, l’arma più forte di un soggetto difficile da comprendere, da gestire e persino da apprezzare se non se ne conoscevano le virtù nascoste. 

Era il burbero, lo scontroso, l’aspro e dolente condottiero di una squadra composta dagli scarti altrui, assemblata magistralmente dalla bravura dell’unico allenatore che sia mai davvero riuscito a domare l’irruenza di Giorgione, a ricondurlo alla ragione e a convincerlo a porsi al servizio della squadra, lui che era una primadonna, un individualista sfrenato e un simbolo dei profondi cambiamenti di quell’epoca, quando cominciava ad affermarsi l’io al posto del noi, prima che l’elevazione dell’individualismo a virtù venisse ufficialmente sdoganata dai cantori del neo-liberismo sparsi ad ogni latitudine. 

Se volete sapere chi fosse, invece, Antonio Ghirelli, dovete pensare all’antitesi di Chinaglia. 

Un uomo distinto, un maestro della penna, interprete della Napoli migliore, un cronista sportivo e politico, colui che, insieme a Biagi, annunciò la liberazione di Bologna dalla radio della Quinta Armata e che dieci anni dopo abbandonò il PCI in opposizione allo scempio di Praga, il capo ufficio stampa del Quirinale ai tempi di Pertini e di Palazzo Chigi ai tempi di Craxi, uno storico di indubbio valore e uno straordinario costruttore di giornali: questo è stato Ghirelli.

Lo incontrai a casa sua nel giugno del 2007, avevo diciassette anni e conversammo per circa un’ora, ripercorrendo la sua vita, le sue esperienze al fianco dei fuoriclasse dello sport e dei grandi della terra, i suoi viaggi, le sue avventure e la sua epopea umana e professionale, in un clima caratterizzato da una cortesia e da un amore per la vita di cui oggi s’è persa traccia.

Un uomo che per due anni aveva lavorato a fianco del Capo dello Stato più amato dagli italiani accettò non solo di farsi intervistare da un liceale ma anche di aprirsi e di raccontargli, punto per punto, un’esistenza straordinaria. Ecco, se c’è un aspetto di Ghirelli che mi lasciò senza parole fu la sua umiltà: il valore aggiunto dei grandi uomini, la risorsa dei forti, la nobiltà d’animo di chi è capace di dirigere senza mai imporre la propria visione delle cose.

Non avrei potuto narrare due storie più diverse, eppure il filo che le tiene insieme rende bene l’idea di quanto possa essere complesso, spettacolare e meraviglioso questo nostro andare, questo viaggio chiamato vita in cui la potenza esplosiva e il garbo da Napoli di Bellavista si intrecciano fino ad accorgersi di non poter fare a meno l’una dell’altro. Questa era la poesia, la magia, l’unicità di quei tempi che Ghirelli mi ha raccontato e che oggi ci mancano, al pari della loro incosciente, sublime, irripetibile genuinità.

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