Juventus: la maledizione di Cardiff continua

Spiace dirlo, ma la Juve ieri sera all’Olimpico, di fatto, non ha giocato. È rimasta con la testa e il corpo a Cardiff, prigioniera dei suoi veleni, delle sue polemiche, di screzi e amarezze mai davvero chiariti durante e dopo la disfatta patita contro il Real Madrid e, soprattutto, della sua mancata accettazione di un verdetto amaro.

E il verdetto è che no, non è ancora ai vertici europei: è fra i migliori club in assoluto, questo sì, e lo rimarrà ancora a lungo, anche dopo la sconfitta (2 a 3) accusata contro la Lazio in Supercoppa e dopo un pre-campionato non propriamente esaltante. 

La Juve era e rimane una grande del calcio mondiale: per ciò che rappresenta storicamente e per ciò che ha saputo costruire e ricostruire negli ultimi sei anni, una volta smaltite le scorie del post-Calciopoli. 

Tuttavia, non è il Real Madrid e nemmeno il Barcellona: non ancora, almeno, e di questo società, giocatori e tifosi hanno il dovere di prenderne atto quanto prima. Non ha la forza economica delle due grandi di Spagna, non ha il loro fascino e il loro prestigio, non ha lo stesso approccio europeo e lo stesso gioco spumeggiante che consente loro di arrivare costantemente in fondo alle competizioni internazionali: insomma, resta la migliore squadra italiana ma non è ancora in grado di competere per i massi i livelli mondiali. 

Potrebbe arrivarci già quest’anno, o comunque entro qualche anno, proseguendo lungo la strada degli investimenti mirati, dei bilanci in ordine e della gestione oculata di uomini e risorse, ma solo se saprà scrollarsi di dosso l’inaccettabile presunzione con cui è scesa in campo ieri sera e se riuscirà a liberarsi del sortilegio gallese e dell’ossessione della Champions. 

L’ambiente bianconero, infatti, in questi mesi post-Cardiff è stato uno dei peggiori, con tifosi inferociti nonostante una campagna acquisti di tutto rispetto e una società che non è stata in grado di spiegare loro che Bernardeschi, Douglas Costa, De Sciglio, Bentancur e gli altri rinforzi che sono già arrivati o arriveranno  nei prossimi giorni costituiscono un atto d’amore nei confronti di una squadra già fortissima e assai difficile da migliorare, al netto delle necessarie cessioni di Bonucci e Dani Alves. 

Se perde, se ha delle incertezze, se la difesa va stranamente in affanno dopo anni di dominio pressoché totale, se succede tutto ciò, dunque, è perché l’inseguimento spasmodico e fuori dal normale nei confronti della coppa dalle grandi orecchie sta facendo passare in secondo piano i risultati straordinari sin qui raggiunti e le altre competizioni nelle quali i ragazzi di Allegri sono impegnati. 

La Juve, insomma, ricorda un po’ quelle bellissime ragazze che si vedono brutte e magari, per questo, diventano anoressiche, mettendo a repentaglio la propria salute e la propria stessa vita. 

Un’inquietudine palpabile, purtroppo, che ha fatto passare in secondo piano persino il numero 10 di un Dybala che ormai, a mio modesto giudizio, ha affiancato Messi e si appresta a superarlo e che ieri sera ha offerto un saggio delle proprie qualità assolutamente fuori dal comune. 

Una sorta di “spleen” sportivo che ha nascosto i meriti di una compagine che ha avuto, comunque, la forza di rimontare due gol, salvo poi cadere nel finale più per sfortuna che per demerito. 

Un’ansia da prestazione che è sempre garanzia di insuccesso e di polemiche a non finire. 

Una Juve che, pertanto, se vuole tornare a vincere, rendendo giustizia alla propria storia e al proprio blasone, deve smetterla di fustigarsi, affidarsi alla saggezza di Allegri, lasciarsi prendere per mano dai suoi veterani e giocare come può e come sa, con la consapevolezza di essere la più forte e l’umiltà di chi sa che, proprio per questo, nessuno le regalerà nulla. 

La Juve di ieri sera era l’ombra dello squadrone ammirato negli ultimi anni, come se un maleficio ne avesse ingabbiato il genio, la grinta, il talento e la voglia di lottare. È bastato, però, che Dybala sfregasse nel finale la propria lampada di Aladino ed ecco che l’impresa di rimontare e vincere il primo trofeo della stagione sembrava lì, a portata di mano. Poi sono ricomparsi i demoni, la stanchezza ci ha messo del suo e la già menzionata sfortuna ha fatto il resto. 

La Lazio ha vinto con pieno merito, sia chiaro, Inzaghino si conferma un tecnico destinato ad una grande carriera (forse addirittura più del fratello) e il fatto che con un gruppo complessivamente di gran lunga inferiore abbia dominato larghi tratti della partita dice molto in merito alle qualità di questo timoniere e alla sua capacità di trasformare in oro i non molti mezzi che ha a disposizione. 

L’opulenta Juve prenda esempio: noi tifosi abbiamo il diritto di continuare a sognare.

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